in “Quaderni di Gestalt” n.12 Ragusa
Nel “Documento sulle aree teorico-tecniche della psicologia clinica”, realizzato dal Direttivo Nazionale della Divìsione Clinica della SIPs (pubblicato in: Quaderni di Gestalt, n. 12), Luciano Rispoli analizza la centralità della funzione della psicoterapia all’interno della psicologia clinica, il suo sviluppo storico, la sua condizione attuale e le prospettive che si dischiudono per un progetto futuro di intervento più ampio e globale sulla salute e sul benessere individuale e sociale.
A più riprese, e giustamente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha messo l’accento sul bisogno di un’azione psicologica a vasto respiro mirata ad una prevenzione primaria effettiva (oltre che ad una prevenzione secondaria), rispetto alla quale una presenza della figura dello psicologo, accanto al medico, nei servizi di base, nella consulenza familiare, nella scuola, nei processi di vita, diviene effettivamente indispensabile. Tutto ciò, pero, non può essere considerato in opposizione al ruolo centrale che la psicoterapia deve assumersi in questo processo di ampliamento dell’intervento Non dobbiamo infatti ridurre arbitrariamente il concetto di approccio psicoterapeutico al solo momento della cura, e per lo più di una cura assimilata al setting privato e individuale, magari di una psìcoanalìsì di lunga durata. Per psicoterapia, invece, si deve intendere (in un’accezione che è ormai condivisa dal mondo scientifico e dal pensiero comune) quell’insieme di sistemi, di paradigmi teorici, di ipotesi che si riferiscono al funzionamento psicofisico dell’essere umano, sia a livello individuale che sociale. D’altronde la centralità della psicoterapia, al di là della accezione medica del termine su cui si è insistito esageratamente in passato, va ritrovata nel fatto che questi sistemi teorici, a differenza degli impianti di tipo più strettamente filosofico, nascono dalla pratica clinica. dall’operatività che il disagio richiede come risposta attiva. Al di là delle singole tecniche e delle molteplici metodologie di cui e composta, la psicoterapia è stata ed è ancora la pratica fondante dei modelli di personalità, a cominciare dalla metateoria psicoanalitica. che pure da iniziali esigenze e applicazioni di cura si angina. Ampiamente dibattuta, in occasione dell’approvazione della legge 56/89 sull’ordinamento dello psicologo, è stata d’altronde la fondatezza della concezione che vede l’atto psicoterapeutico (al dì là delle rivendicazioni mediche) come squisitamente e profondamente radicato nella scienza psicologica. Dunque nella psicologia clinica noi ritroviamo fondamentalmente complessi modelli teorici e ampie aree teorico-tecniche che l’attraversano longitudinalmente, toccando nelle loro articolate formulazioni: la teoria generale della personalità. il funzionamento generale dello psichismo, il suo sviluppo evolutivo, i processi di connessioni con il corporeo, il funzionamento dello psichismo familiare e gruppale. lo studio delle trasformazioni negli stati di vita, lo studio delle cause delle alterazioni e degli squilibri delle condizioni di benessere. la comprensione dell’acquisizione di nozioni e capacità, la diagnostica dei disturbi e, soltanto alla fine, le tecniche e le metodologie curative e di intervento. Le aree teoriche sono modelli ipotetico-deduttivi, nati dalla pratica clinica e confermati sia da una congruenza al loro interno, sia da una verifica applicativa, sia dalla continua acquisizione di nuovi dati
Nel documento della Divisione Clinica ci si sofferma sul concetto- base secondo cui non è possibile parlare oggi di una psicologia univoca, in nessuna delle sue branche esplorative ed applicative. Dietro ogni ramo della psicologia ci sono comunque le differenti aree teoriche, con ipotesi, proposizioni, spiegazioni differenti: aree che, tanto per intenderci, a volte vengono chiamate riduttivamente “approcci clinici” o “scuole di psicoterapia”. Dunque, riassumendo, è la pratica psicoterapeutica (vista naturalmente in senso lato) che ha prodotto, intrecciandosi con le ricerche sperimentali, queste grandi aree teoretiche, le varie ipotesi sulla struttura della personalità; e da queste discendono, successivamente, le indicazioni per l’intervento operativo nei diversi settori applicativi.
Un secondo concetto importante è che la psicodiagnostica appartiene anch’essa, come terminologia e visione epistemologica, alle aree teoriche e da essa è improntata. Tolta l’illusione di asetticità e obiettività (del resto da tempo demistificata nel mondo della scienza) resta da chiarire come tale appartenenza alle teorie non privi la psicodiagnostica della presenza di un ampio spettro, di una casistica articolata, ai fine di non escludere alcun aspetto delle condizioni, delle esigenze e delle richieste concrete di qualsivoglia utenza, sia che si rivolga ai servizio pubblico che alla psicoterapia dei centri privati. Potremmo dire che, anzi, al di là di una concezione intesa solo come classificazione dei disturbi, una psicodiagnostica che riconosca di appartenere ad un qualsiasi determinato paradigma teorico (purché solido e fondato) è in grado di guardare ai meccanismi di insorgenza del disagio, ai fattori che lo provocano e che determinano le alterazioni del Sé. Perciò è in grado di spaziare in un’area molto più vasta, di situazioni possibili, di quanto non possa fare una metodologia che si basasse solo sulla raccolta di una casistica di disturbi, che di per sé non può mai essere esaustiva di tutte le possibilità. Un modello teorico per sua natura può essere piegato allo studio di qualunque variazione, fornendo al contempo e in modo inscindibile una strada per la comprensione di tutti i complessi fenomeni che abbiano contribuito a generare la patologia. La nosografia psichiatrica, invece, per quanti sforzi siano stati compiuti nel catalogare e nell’omologare minuziosamente sintomi e sindromi, risulta (come da più parti la letteratura mostra) standardizzata nelle definizioni piuttosto che aderente alle situazioni reali. E comunque priva della capacità di comprensione della dinamicità del disturbo che è legata alla storia concreta del soggetto e che solo un modello teorico può prendere in considerazione, sia attraverso gli effetti che nell’attuale si riscontrano nella struttura di personalità, sia attraverso il modo in cui questi si sono man mano stratificati. Ciò ci permette di passare ad un altro punto, anch’esso estremamente pregnante, che riguarda il dibattito sugli ambiti di competenze che la psicologia clinica può ricoprire in situazioni di tipo “pubblico” o “privato”. E’ stato detto, infatti, che mancherebbe alle aree teorico-tecniche in altri termini, ai vari approcci e alle varie scuole di psicoterapia) una valenza pubblica, una capacità di rispondere alle esigenze di un servizio pubblico, per il fatto che la fenomenologia indagata dalle pratiche psicoterapeutiche si definirebbe solo in base alla particolare teoria che fonda l’intervento. In altre parole si vorrebbero considerare autoreferenti tali approcci, nel senso che la problematica “nascerebbe” dalle condizioni stesse della relazione terapeutica o per meglio dire dalla maniera di guardare alla relazione.
Perciò la problematica “reale” che si presenterebbe ai servizi pubblici non potrebbe per principio rientrare nella pratica psicoterapeutica sviluppata nei centri privati (e non per questioni di durata o di costi del trattamento). Ora, per rispondere a questa affermazione, basta ricordare che un approccio psicoterapeutico, o meglio (come è preferibile dire per non cadere nell’equivoco di considerare le sole tecniche) un ‘area teorica, esplora con le sue varie proposizioni scientifiche tutti gli aspetti del funzionamento umano e dunque anche l’ambito della relazione (tra paziente e terapeuta, medico e malato, insegnante e allievo, e cosi via). Il fatto che una parte (ma solo una parte) delle ipotesi del modello sia nata a partire dalla relazione non ci deve ingannare facendoci affermare che il modello si esaurisce tutto all’interno della sola relazione. Conosciamo bene le applicazioni possibili di una metateoria generale costruita a partire da un approccio psicoterapeutico nei campi più disparati, che vanno dall’antropologico all’artistico, al sociologico, e così via. La metateoria è una teoria generale che comprende al suo interno anche una teoria della tecnica; è solo quest’ultima a coincidere in parte con un serie di fenomeni che nascono all’interno della relazione e sono in una certa misura generati dalla particolare angolazione scientifica da cui li si guarda. Non bisogna dunque confondere la pratica psicoterapeutica con la teoria generale; i modelli di cui parliamo non sono privi di una teoria generale, e quelli che ne sono privi non possono che ridursi a mere tecniche empiriche. L’esistenza di modelli e di teorie generali permette trasposizioni da un piano specifico all’altro, sperimentazioni e verifiche ad ampio respiro, impostazioni di ricerche, operazioni di produttività, anche in relazione a quella particolare categoria di eventi cosi unici e irripetibili quali sono i trattamenti psicoterapeutici. La predittività non si riferisce naturalmente alla singola esperienza terapeutica, all’incontro del tutto singolare tra due persone, due realtà, due storie ogni volta diverse da tutte le altre. Quello di cui parliamo non è la narrazione storica di un singolo trattamento psicoterapeutico (che varia di volta in volta), bensì la sua narrazione scientifica, cioè quell’accadere di fasi, di processi. di andamenti che sono comuni ad ogni vicenda terapeutica, e che il modello generale è appunto in grado di ipotizzare, comprendere, rilevare e confermare. I fenomeni che si realizzano nella relazione terapeutica, pur essendo comuni al particolare paradigma teorico, affondano comunque (come ad esempio nel caso dei fenomeni da transfert) nella storia passata dei soggetti, attingendo ad una realtà ampiamente esterna al modello e alla relazione stessi. In tal senso la modellistica delle aree teoriche è in grado di studiare le particolari condizioni al contorno di ogni genere di relazione, possedendo la conoscenza di elementi e processi che costituiscono le variabili in gioco nella relazione stessa. La teoria generale può dunque affrontare, ancor più profondamente, tra le altre, anche quelle particolari configurazioni che si ritrovano in un servizio pubblico, o quelle che caratterizzano la pratica privata, o le condizioni e le modalità specifiche con le quali, nella concretezza delle varie realtà, il servizio pubblico o privato sono realizzati. Da queste analisi è possibile ridiscendere alle specificità operative, fornendo metodologie di intervento adeguate ed efficaci. Dunque nessuna teoria clinica è autoreferente, nel senso di definire solo sulla propria base la problematica trattata. Al contrario ogni teoria generale ha la possibilità di trovare applicazioni operative ampie poiché può abbracciare fenomenologie, problematiche, situazioni, sintomatologie presenti in ambiti, in culture e in condizioni le più differenziate possibili. Naturalmente la pratica nei diversi ambiti è al contempo conferma e fonte di nuovi imputs per l’aggiornamento della teoria generale e dunque anche della teoria della tecnica. Che cosa ha significato, allora, per il panorama scientifico generale, l’esistere e l’insorgere di modelli teorici differenziati all’interno del campo della psicologia clinica e della psicologia più in generale? La storia di quanto è accaduto, se ben analizzata, ce lo chiarisce. La psicoterapia nasce come intervento operativo alternativo alla pratica psichiatrica (dei farmaci, dei sintomatici. delle terapie da shock). fondato principalmente sulla relazione. Si sviluppa in due grandi ambiti iniziali: da una parte lo studio “dinamico’ del profondo e dell’inconscio, presente soprattutto in Europa e negli sviluppi della psicoanalisi (poco importa se sia stato ufficialmente usato il termine “psicoterapia”, dal momento che Freud stesso prende l’avvio da esigenze di cura); dall’altra io studio di tipo “sperimentale” di fenomeni psicofisiologici o comportamentali, direttamente osservabili e modificabili negli individui (in particolare n Unione Sovietica e negli Stati Uniti d’America). Con il tempo, dalla pratica clinica stessa dei terapeuti nascono nuovi modelli teorici, a partire da modalità di intervento che sconfinano dalle ortodossie scoprono fenomeni e aspetti nuovi dei processi psicologici e relazionali. Tali fenomeni e processi, non essendo spiegabili con la teoria iniziale di riferimento, producono ipotesi nuove, nuovi modelli, nuove teorie generai e nuove teorie della tecnica. A volte queste “deviazioni” eterodosse permettono di scoprire intere zone del funzionamento dell’individuo, fino a quei momento ignorate, e a poco a poco generano una nuova complessa ed ampia area teorica. Altre volte gli aspetti presi in considerazione non sono di vasta portata e portano solo a innovazioni tecniche limitate e nulla più. Storicamente il processo di nascita di nuovi modelli teorici ha trovato ostacolo nella generalizzata opposizione del mondo scientifico (e accademico in particolare), arroccato sui modello medico o su posizioni di retroguardia, verso la psicologia clinica (compresa la già affermata psicoanalisi o il diffuso pragmatico comportamentismo americano). Un secondo fattore di difficoltà è da ricercare nell’estrema diversità di questi due filoni iniziali che sì sono combattuti aspramente, forse anche come atteggiamento reattivo al continuo sforzo di penetrare e conquistare un posto nel mondo scientifico del tempo. Una terza causa della eterogeneità e della frammentazione dei differenti approcci è da ricercare nell’arroccamento dei modelli più affermati in strette ortodossie, per cercare di impedire, con politiche di potere e di organizzazione, il sorgere di altre teorie cliniche sia al loro interno che al loro esterno. In particolare in Italia (e in altri paesi europei), la “sacralità” dell’istituzione Universitaria e dell’Istituzione Pubblica, unita in alcuni casi ad un tipo di gestione clientelare e baronale che la assi- mila alle deviazioni del mondo dei nostri politici, hanno fatto sì che anche l’Università e i Servizi pubblici fossero oggetto di mire e di occupazione (quando finalmente sono riusciti a vincere le resistenze apposte da parte dei modelli di psicoterapia più affermati, più diffusi, già strutturati in organizzazioni internazionali di potere e che al potere avevano puntato). Diversamente da quei paesi dove più facilmente veniva accettata la novità se interessante e valida, e immessa subito nelle Università private, da noi si è venuta a creare una pesante mancanza di spazio, di mezzi di ricerca e di modi di trasmissione per quelle teorie che nascevano successivamente, o che non avevano sufficienti organizzazioni di potere, oche erano così avanzate da essere strenuamente combattute per arretrati pregiudizi. Gran parte delle energie sono allora state spese soprattutto per la “sopravvivenza”, che in questo clima significava esistere nonostante gli altri, badare a rafforzare la propria teoria, non pensare neppure a confrontarla e incrociarla con le altre per non correre il rischio di sottoporla a una critica che la potesse seppur in minima parte indebolire. Se dunque in alcuni paesi abbiamo assistito all’insorgere di un eclettismo esageratamente pragmatico e “consumista”, perché veniva considerato prioritario lo scopo di poter offrire all’utenza prodotti multiformi capaci di raggiungere un buon livello di successo, da noi abbiamo assistito di contro a una frammentazione e a una chiusura che sino a poco tempo fa hanno ostacolato un lavoro di raccordo e di integrazione delle teorie. Ma al di là delle condizioni culturali, sociali e politiche specifiche di ogni paese, il processo di ricerca e di sviluppo scientifico ha avuto ed ha lo stesso andamento e lo stesso senso: quello di avere illuminato (nel giovane campo dello studio dei processi psichici e psicofisici dell’uomo) man mano aspetti e fenomeni sconosciuti, zone della struttura della personalità che non erano state prese in considerazione dagli altri modelli, o che non erano ancora sufficientemente studiate dalla psicologia sperimentale e dalle ricerche sull’età evolutiva. Cosicché, a guardare da un ampio orizzonte l’andamento della storia della psicoterapia, si può immaginare di vedere questa costellazione di luci che pian piano si accendono e contribuiscono a rendere gradatamente più chiaro l’intero campo. E’ altrettanto evidente che una nuova fase (anche se attraverso modalità differenti nelle diverse nazioni) è già iniziata: quella della costruzione di un corpus teorico clinico di base, comune (ma non nel senso di unico né monolitico), attraverso collegamenti e interazioni tra le grandi aree teoriche. E un processo lento, che costringerà a mettere da parte ipotesi e proposizioni che non risultassero più congruenti con l’intero campo, o con le ricerche in tutti i settori contigui che hanno nel frattempo arricchito di nuovi dati le nostre conoscenze. Sta a noi ora divenire consapevoli di queste linee di tendenza e favorire anziché ostacolare, leggere nel tessuto e nella ricchezza che ogni modello ha apportato, evitare di dovere perdere quei risultati che una determinata teoria è riuscita a conseguire, cercare di aiutare il moltiplicarsi esponenziale delle conoscenze che una collaborazione pluralista può produrre. Certo è che le scoperte (e gli interrogativi che ne derivano) realizzate dai vari approcci cimici riguardano l’intero campo e non soltanto il singolo approccio: sono patrimonio di tutti, richiedono la risistemazione di tutte le conoscenze e di tutti i singoli quadri teorici, perché l’oggetto di studio e di intervento è il medesimo. Non possiamo ignorare quanto emerge nelle varie pratiche psicoterapeutiche né d’altro lato ha senso collezionare e agglomerare meccanicamente varie tecniche, se non se ne integrano i relativi sistemi teorici di riferimento. Una risposta positiva al problema viene dal succitato Documento della Divisione Clinica della SIPs, poiché gli obiettivi che vi sono posti sono espliciti e precisi, e vanno nel senso di favorire la pluralità degli approcci cinici salvaguardando i contributi positivi di tutti e mettendo fine alla lotta per la “sopravvivenza”. Il progetto prevede strutture di formazione di ampio respiro a livello nazionale, suddivise per aree teoriche e formate da tutte le scuole scientificamente valide operanti in ciascuna area. Questo sistema costringerà inevitabilmente i singoli istituti ad iniziare un processo di confronto e integrazione a partire dalla propria area, realizzando l’obiettivo di utilizzare i contributi validi anche delle scuole meno forti (organizzativamente, politicamente, numericamente) o meno collegate al sistema universitario. In questo modo si può inoltre evitare un altro rischio che sembra aleggiare sulla formazione in psicologia clinica: quello di spezzare trasversalmente il senso globale del processo di formazione (che è sempre anche ricerca) in un troncone più teorico appannaggio dell’Università, e in uno limitato alla terapia personale lasciato alle Scuole private, con l’aggiunta magari di un terzo livello (anch’esso scisso) della pratica e dei tirocini affidato ai Servizi territoriali. Avere Scuole di formazione a respiro nazionale per aree permette invece di integrare alloro interno tutti e tre i poli fondamentali dell’attività (ricerca e pratica) della psicologia clinica. Gli atti e i passi operativi indispensabili sarebbero facilmente realizzabili:
1) Individuazione di criteri minimi scientifici per il riconoscimento delle Scuole di Formazione (compito della Commissione Ministeriale per l’art. 3) sia in termini qualitativi che quantitativi: ricerche effettuate, pubblicazioni, durata dei corsi, metodologie miste seminariali e di attraversamenti terapeutici personali, tirocini, fondamenti teorici solidi, produzione scientifica, supervisioni, docenti e trainers, connessioni nazionali e internazionali, anzianità della Scuola, ecc.
2) Riconoscimento da parte del Ministero delle Scuole che hanno tali requisiti.
3) Nomina da parte del Ministero di un Comitato Scientifico per ogni area teorica, composto dai rappresentanti delle Scuole riconosciute, dell’Università e dei Servizi territoriali.
4) Presentazione da parte di ogni Comitato di un progetto di formazione per area con l’indicazione delle sedi da attivare, dei corsi, dei docenti, dei tirocini, delle ricerche, ecc. Il corso potrebbe essere costituito da un biennio di base integrato e unico, e da bienni più specifici relativi alle varie correnti e specializzazioni presenti nell’area, con il coinvolgimento anche degli Istituti più piccoli e meno organizzati utilizzandone docenti, proposizioni scientifiche valide, linee di ricerca, tecniche, ecc.
Solo a partire da un processo al contempo così unitario e ramificato, semplice e corretto nella sua applicazione, sarà possibile uscire dalle vecchie logiche che in Italia hanno già afflitto altri campi professionali e scientifici e che affliggono ancora più pesantemente la psicologia. Con un tale progetto formativo si rivoluzionerebbero per la prima volta i rapporti tra pubblico e privato e si aprirebbe una nuova pagina di collaborazione costruttiva, di dialogo, di confronto per tutta la psicologia clinica. In questo quadro le Scuole universitarie di specializzazione in psicologia clinica e psicoterapia potrebbero ricoprire un compito specifico (anziché costituire un percorso parallelo a quello privato): potrebbero essere proprio il laboratorio dove si studiano, a partire dalle aree teoriche esistenti, le possibilità di costruire gradatamente un corpus teorico psicologico comune, integrato più che eclettico, dal momento che nell’Università si ritrovano mentalità, mezzi, disposizioni adatti ad un discorso scientifico generale, complessivo ed equidistante dai grandi modelli teorici.