in “Archivio di neurologia psichiatria e psicologia. Gruppo-analisi e Istituzioni: modelli, confronti e setting” – Roma, 1994.
La psicoterapia corporea utilizzata sin dall’inizio nei gruppi e nella gruppalità ha condotto allo studio dei piani e delle funzioni attraverso cui si articolano i processi multidimensionali. Così la configurazione del Sé dei soggetti può essere colta più facilmente anche in condizioni non protette (come in un servizio pubblico) attraverso la lettura di più piani funzionali, compresi quelli delle posture, dei movimenti, della respirazione, degli atteggiamenti corporei, dei sistemi fisiologici interni, meno influenzati dalle situazioni circostanti. E il gruppo può essere visto molto efficacemente come un organismo, come un Sé complessivo, con le sue aree funzionali ipertrofiche o atrofizzate, con le sconnessioni tra i vari piani o le rigidità che le varie funzioni possono presentare.
I GRUPPI NELLA PSICOLOGIA REICHIANA
La psicologia reichiana nasce, come tutti i sistemi di pensiero psicodinamico di quell’epoca, sull’esperienza clinica dell’intervento individuale: a partire dallo studio della struttura caratteriale e corporea della persona per finire alle tecniche terapeutiche basate su un lavoro corporeo-analitico mirato fondamentalmente al singolo paziente. Ma, nelle sue formulazioni teoriche generali, grande spazio è riservato ai risvolti sociali del disagio esistenziale, alla psicologia di massa (con le tragedie umane generate dal fascismo e dal nazismo), al valore di forza storicamente significativa attribuita ai sistemi di pensiero e di comportamento delle persone. D’altra parte l’attenzione per le teorie di Reich si sviluppa sia direttamente dalla matrice germinata in Europa (prima che Reich la lasciasse) sia indirettamente dalle evoluzioni del suo pensiero in America, dove si andava già mescolando agli interessi per la psicologia di gruppo. Le sue caratteristiche di apertura all’innovazione e alla sperimentazione diedero la spinta ulteriore per fondersi con i temi della gruppalità: sin dall’inizio, nel 1969, il Centro Studi Reich di Napoli incentrò le sue attività e le sue ricerche per una larga parte sui gruppi, e a vari livelli. Un primo livello fu quello del gruppo psicoterapeutico organizzato su un setting di sedute settimanali, della durata di due ore e mezzo ciascuna. Sua caratteristica costante (sulla quale si sono potute fare numerose osservazioni e inferenze) è la conduzione in coppia; non tanto per offrire un modello di genitorialità, quanto per favorire il dislocamento delle focalità, l’accrescersi delle percezioni e delle dimensioni del Sé, attraverso lo scambio e il confronto continuo dei campi trans-ferali dei due terapeuti. * Psicologo e Psicoterapeuta. Presidente Società Italiana Psicoterapia Funzionale corporea (S.I.F.), Presidente Società Italiana Psicologia Clinica e Psicoterapia. L’esperienza dei gruppi si è poi estesa ad altri livelli meno «classici » rispetto al consueto raggio di intervento gruppale. Tra gli altri rileviamo, per importanza e per mole di risultati, il gruppo per gestanti, finalizzato non solo alla preparazione al parto, ma soprattutto ad un buon contatto della donna con se stessa e con il bambino, sin dal 40 mese di gravidanza. Su un piano ancora diverso si collocano le esperienze dei gruppi per operatori, che approfondiscono, sin dal 1973, quegli aspetti della relazione interindividuale e gruppale legati piuttosto alle dinamiche istituzionali, alla formazione, all’acquisizione di conoscenze e capacità, senza però trascurare le componenti emotive, il versante clinico e in genere l’intero dispositivo terapeutico del modello funzionale e delle teorizzazioni relative alla configurazione del Sé.
LA TEORIA FUNZIONALE DEL SE
Il lungo percorso compiuto da queste esperienze, i dati accumulati e i risultati estremamente incoraggianti hanno consentito di costruire un sistema teorico via via più complesso e articolato che collega in una triangolazione di reti interattive i tre piani dello psichismo e della relazionalità umana: l’individuo, il gruppo, l’istituzione. L’avere connesso tutto ciò alla dimensione della ricerca, da un lato, e alla presenza delle variabili «corporee », dall’altro, ha favorito un notevole sviluppo di tale sistema rispetto alle prime ipotesi più semplicistiche psicocorporee, nelle quali il dato dualistico, quello energetico e quello tipologico erano ancora fortemente prevalenti. Lo studio della personalità veniva in questi nuovi studi, invece, affrontato per così dire « dall’alto », con il risultato, ad esempio, di poter cogliere su altri piani ciò che era « rimosso» da uno di essi, di poter leggere ciò che era accaduto nella sfera delle emozioni osservando i movimenti corporei fisiologici o capire la storia delle simbolizzazioni dalle posture corporee. Emergeva in modo via via più chiaro il fatto che si poteva parlare di processi funzionali (e della storia delle loro interconnessioni, scissioni ed alterazioni) e quindi di una configurazione complessiva del Sé attraverso un’analisi delle grandi aree in cui è possibile suddividere la relazionalità interna ed esterna della persona. Le modificazioni che intervengono nei processi funzionali hanno dunque significato solo in relazione agli eventi degli altri piani in cui si articola il Sé, più che in senso assoluto.
Le ricerche sempre più sofisticate sul mondo neonatale e infantile mostrano un bambino capace di interagire attraverso tutti i suoi processi funzionali, che sin dall’origine si rivelano profondamente interconnessi tra di loro e con il mondo circostante. Così, invece di parlare in modo vago e impreciso di psiche e soma, le aree dell’emotivo, del cognitivo, del fisiologico e del posturale andarono a costituire un modello quadrifunzionale del Sé che prevedeva un’ulteriore articolazione in sottopiani per ciascuna area. La diagnosi clinica anziché basarsi sulle « tipologie » o sulle «sindromi» diveniva via via più individualizzata, cogliendo in modo specifico la configurazione caratteristica del Sé di ciascuno, così come si era andato trasformando nell’interazione complessa con l’ambiente. L’estrema quantità delle variabili in gioco, che costituiva da sempre un grosso ostacolo alla ricerca sistematica, veniva ad essere razionalizzata e ridotta da un duplice effetto presente in queste recenti teorizzazioni del modello funzionale. Da un lato la suddivisione in quattro aree del Sé permetteva di raggruppare e sistematizzare in categorie omogenee i numerosissimi dati della osservazione di tipo olistico. Dall’altro fungeva da filtro selettivo e da filo rosso la presenza di incongruenze, sconnessioni, contraddittorietà tra gli stessi processi funzionali, con connotazioni che assumevano sfumature differenti a seconda che essi appartenessero a diversi piani del Sé o a sottopiani di una medesima grande area funzionale.
Ritornando al tema del gruppo e delle istituzioni è possibile, alla luce di quanto abbiamo sinteticamente riassunto, fare due considerazioni al riguardo. La prima chiarisce quali contributi allo studio dei gruppi possano essere considerati derivati dalla teoria funzionale del Sé. La seconda è una specificazione del tema dell’intersezione tra pratica clinica e momento istituzionale, rivista alla luce di quegli elementi di un quadro clinico che possono essere ritenuti costanti, anche nel caso di una estrema variabilità del setting o in condizione « non protetta » dell’intervento psicologico e psicoterapeutico (come può accadere appunto nei servizi territoriali). Partiamo da quest’ultima.
L’INTERVENTO NELLE ISTITUZIONI
La multidimensionalità della psicoterapia funzionale consiste, come dicevamo, nella capacità di cogliere i messaggi comunicazionali che la persona invia attraverso più piani e funzioni del Sé. Si tratta di un fenomeno in certa misura di « ridondanza », che permette, nel silenzio di uno dei canali della comunicazione (prodotto ad esempio dal disagio delle condizioni poco protette nel servizio pubblico o da alterazioni patologiche nella persona), di cogliere la caratterialità e la configurazione particolare del Sé da altre angolazioni, utilizzando tutto l’insieme dei piani funzionali, ivi compreso quello delle posture, dei movimenti, della morfologia, degli apparati percettivi, dei sistemi interni all’organismo, e così via. La configurazione del Sé la si può cogliere anche dal tono di voce come dal colorito della pelle, dalle zone dolenti del corpo come dal tono muscolare di base, dallo stato simpaticotonico o vagotonico, dalle forme che somaticamente la persona ha modellato su di sé in anni e anni di modo di porsi verso il mondo. Tutti questi elementi compongono e rafforzano il messaggio ripetitivo e drammatico che la persona lancia all’esterno, incongruente con le reali condizioni di esistenza del momento o con gli inputs dell’ambiente esterno. Noi diciamo che in tal caso si può parlare di una mobilità limitata, di una sclerotizzazione: la persona non ha più a disposizione l’intera gamma di possibilità, tra cui poter scegliere, nell’interazione con l’ecosistema (incluso se stessa); e questo vuoi per le percezioni come per le emozioni, per le idee come per le posture, per i movimenti come per le reazioni fisiologiche più profonde. Dunque gran parte degli elementi, attraverso cui passa la caratterialità complessiva della persona, sono influenzati poco o niente dalle condizioni reali dell’ambiente circostante. Ciò permette di formulare una diagnosi delle condizioni funzionali del Sé anche in situazioni non protette (ad esempio alla presenza di altre figure che possono disturbare il colloquio o in posti rumorosi o in luoghi poco adatti, ecc.) e in genere in condizioni molto lontane dalla purezza del setting, come nei servizi pubblici.
E interessante osservare come la medesima configurazione del Sé possa essere utilizzata, poi, anche per trovare le strade più aperte e disponibili per raggiungere nuclei più profondi della persona, attraverso un uso più espressamente terapeutico oltre che diagnostico. Un tono di voce, un massaggio, un movimento, un respiro, hanno una tale efficacia diretta e immediata nella regressione a zone di coscienza e di percezione arcaiche, da non venir disturbati minimamente dall’arredamento della stanza, dalla costanza o meno del luogo di terapia, dai brusii o rumori che possono giungere, e così via.
I GRUPPI
L’interazione tra i sistemi del Sé è, per le medesime ragioni, visibile anche in condizioni complesse come quelle di un gruppo. Anche qui le numerose variabili, che sono comunque in gioco nelle relazioni multiple, possono essere colte, purché inscritte in un sistema teorico-clinico che permetta di cogliere solo quelle di rilevata significatività, trascurando tutti quei particolari « prolissi» che non forniscono ulteriori informazioni utili allo stato generale dei processi funzionali della persona. In genere, ad esempio, è sufficiente un solo incontro per cogliere in modo abbastanza dettagliato la configurazione del Sé di un paziente. Il processo gruppale, dunque, può essere letto anche in questa chiave: come complesso di interazioni tra più sistemi aperti, costituiti dal Sé dei partecipanti e dei conduttori, dove la complessità dei singoli eventi di comunicazione a vari livelli e su vari piani di funzionalità degli organismi è raccolta e resa significativa dalle grandi aree funzionali e dai sottopiani che le compongono. Il gruppo appare come una matrice di intersezioni tra processi funzionali, sia interni che esterni alla persona, che non coinvolgono solo il mentale, ma anche il posturale, il biologico, l’emotivo, con la complessa storia che ciascun individuo porta stratificata dentro di sé (a seconda degli esiti delle vicende relazionali con l’ambiente) e che può essere colta dal tipo di alterazioni che il Sé e i suoi processi funzionali hanno subito. Così sarà possibile notare, ad esempio, che il posturale di A è fortemente limitato (ipotrofico) e al contempo sclerotizzato, nei modi di camminare, appoggiarsi, stare a sentire, ecc., che esprimono una richiesta lamentosa ripetitiva e coattiva; e che B reagisce al messaggio indiretto di A attraverso una rabbia pervasiva e teatralizzata della sua sfera emozionale ipertrofica e non equilibrata nel rapporto tra sentimenti negativi e positivi; mentre C ha reazioni fisiologiche incontrollate di tachicardia alla situazione, senza riuscire ad essere consapevole di come un certo conflitto tra A e B lo coinvolga e lo spaventi. Siamo qui già in presenza di una lettura che permette interventi terapeutici che si allargano dalla terapia in gruppo alla terapia di gruppo. Se proseguiamo oltre per questa strada, giungiamo in una zona delle conoscenze in cui è il gruppo stesso ad essere interpretato come organismo, come Sé complessivo funzionale, con i suoi processi situati nelle varie aree e sottopiani, le sue vicende stratificate, le alterazioni funzionali, le limitazioni di mobilità. Altro è l’atmosfera di gruppo, intesa come emozione che in quel momento gira tra le persone e le collega, come umore reattivo ad una condizione passeggera; altro è la caratterialità o la configurazione funzionale del gruppo, come modalità ripetitiva di porsi (in questo caso emotivamente), come messaggio coattivo e fisso nei confronti di se stesso, dei conduttori, dell’esterno. Ad esempio un gruppo può avere un razionale ipertrofico, sconnesso con l’emotivo, con una tendenza ossessiva a spiegare senza emozioni le vicende interne-esterne; un altro può avere il sottopiano dei movimenti « fini » fortemente limitato ed essere costretto a muoversi in modo sempre esagerato e grossolano. Un gruppo può essere sussurrante, un altro cicaleccio, uno fortemente immaginifico, un altro ossessionato dal simbolico. Possiamo parlare persino di una configurazione morfologica del gruppo, intesa come sviluppo nello spazio di parti del corpo: un gruppo tutto teste, un gruppo «grasso », un gruppo pesante, un gruppo esile, e non in senso metaforico soltanto. Così come possiamo considerare l’area posturale del gruppo o quella fisiologica: un gruppo con basse soglie percettive, un gruppo con un ipertono muscolare, un gruppo simpaticotonico, un gruppo con sbalzi di « temperatura ». Possiamo rilevare, dunque, quali siano i processi funzionali e le aree ipertrofiche o ipotrofiche del gruppo, vedere dove sono più forti le scierotizzazioni e infine osservare le scissioni più significative tra le aree del Sé o all’interno di una singola area tra i vari sottopiani. Non si tratta di antropomorfizzare il gruppo quanto piuttosto di ampliare l’uso di una concezione funzionale, con le prospettive che essa offre nello studio e nell’intervento nei gruppi. Anche le teorizzazioni sulla conduzione a due, allora, si inseriscono in questa sistematizzazione teorica e clinica, che pone punti di vista, metodologie e formulazioni, specifici della gruppalità, anche se profondamente interagenti con il modello individuale del Sé. La concezione funzionale è dunque una strada aperta e da percorrere. Oggi che il corpo è al centro dell’attenzione, a partire da quella dei modelli clinici contigui (prima fra tutti la stessa psicoanalisi) per finire alle altre discipline scientifiche che studiano l’uomo, il modello funzionale è una prospettiva e una proposta che permettono di abbracciare la complessità e le interazioni tra i vari piani che compongono la struttura della persona, superando sia la vecchia e immobilizzante dicotomia psiche-soma, sia la paralisi e la frammentazione operativa dei troppi tecnicismi proliferanti.