in Formazione e ricerca in Psicologia Clinica e Psicoterapia (op. cit.) – Ed. Bulzoni, Roma, 1987.
Nella relazione terapeutica vengono implicati tutti i piani su cui si struttura il sé corporeo; sia nel leggere in modo più allargato le vicende transferali, che nell’utilizzare in senso altrettanto ampliato l’andamento del proprio controtransfert.
Al di là delle vicende contingenti, (approvazione rapida o meno alla camera) la proposta di legge sulla Professione dello Psicologo, sull’albo e sull’elenco speciale per gli psicoterapeuti, sembra avere svolto un ruolo di stimolazione sui tema delicato e scottante della formazione in psicoterapia e psicologia clinica. Non si può più pensare dunque di tornare indietro, di abbandonare questa strada di chiarezza, di vivacità culturale, di necessaria rigorosa scientificità in relazione a modelli teorici e terapeutici appartenenti alla psicologia clinica. Sono infatti finalmente cadute antiche barriere di silenzio e ciò ha permesso per la prima volta di affrontare alcuni nodi fondamentali, di cominciare a guardare all’internò dei processi formativi, e nei risvolti tecnici, ma anche sociali, di Istituti e Scuole di formazione; se non altro perché molti per sostenere la legge o per avversaria aspramente, si sono spinti a prendere posizioni chiare e ufficiali. La discussione è stata a volte accesa e pubblica, a volte invece troppo delimitata all’interno degli operatori del settore; ma ciò non toglie che al di sotto del problema della legittimazione delle Scuole private di Training si è dovuto indubitalmente porre mano ai problemi teorici e metodologici della formazione stessa. Vorrei subito cogliere due degli aspetti generali a cui andrebbe data, a mio parere, una collocazione centrale. 1) Ritengo che « formarsi» ad un tipo di professione che usa la relazione come strumento fondamentale, oggi, con il procedere continuo e serrato delle acquisizioni scientifiche in varie discipline attinenti al nostro campo, non possa essere dato per avvenuto una volta per tutte. Dobbiamo riconoscere la funzione insostituibile che può e deve svolgere invece un iter di formazione permanente, che non si limiti alla lettura di libri, né si basi solo sull’accrescersi delle esperienze personali. 2) L’altro punto riguarda gli aspetti del cosa dobbiamo tener presente quando si parla di processo formativo. Evidentemente sottintendiamo con questa parola, l’esistenza di un’analogia con quel particolare tipo di crescita della personalità che avviene nel periodo evolutivo, fino a una cosiddetta « maturazione », che non è certo basata solo sull’acquisizione di una somma di nozioni cognitive. Se parliamo di formazione parliamo allora di processi che innescano modificazioni in quelle aree della struttura della persona che abbiano una valenza consistente nel facilitare od ostacolare quelle particolari capacità che attengono alla « psicoterapia ». Questo in altri termini porta a dover considerare una stretta relazione tra attività terapeutica e attività formati- va ad essa preparatoria, più di quanto non lo sia la connessione tra contenuti e metodi di un qualunque tipo di apprendimento.
In altri termini è necessario che il modello teorico sul quale si imposta l’attività formativa risulti all’interno del modello clinico, nel senso di riconnettersi senza incongruenze alle sue implicazioni scientifiche ed epistemiche. Possiamo anche dire che la teoria generale di riferimento funziona da rispecchiamento di tutte le trasformazioni funzionali attinenti sia al piano dell’intervento tecnico psicoterapico, sia a quello della preparazione permanente. Oltre a riconnettere significati ed ambiti differenti è in fondo proprio il modello clinico, più ampio a far sì che continue acquisizioni della esperienza vengano rielaborate in proposizioni formalizzate, e possano poi essere rimodulate come nuove strategie e nuovi procedimenti da utilizzare in psicoterapia e in formazione.
Se va oggi proponendosi sempre più chiaramente la necessità di una formazione permanente ad un livello adeguato di formalizzazione, ciò deve far presupporre che la formazione vada collegata constantemente alla ricerca. Anzi, esplorando più attentamente questa dimensione, possiamo affermare che la capacità di mettere a verifica le proposizioni teoriche e le metodologie operative, allargando il centro di azione del modello o rafforzandolo con ulteriori confronti e nuove ipotesi di lavoro, è il perno centrale della formazione stessa. Altrimenti il rischio è di sconfinare in uno sterile « riprodursi » di operazioni, in una duplicazione fedele ma inerte di tecniche e metodi. Imparare non è mai copiare, come se una matrice ricalcasse qualcosa su una zona bianca e vergine delle nostre capacità (mnemoniche, percettive, motorie, cognitive, ecc.), ma affrontare problemi, superare zone di ombra e di incongruenza, dirimere contraddizioni, in una larga dialettica, riportandole ad un livello nuovo e più ampio. Questo processo passa quindi per le matrici interne del nostro portato culturale ed emotivo, per i nodi cruciali dell’esperienza e del vissuto, laddove la rielaborazione e la sistematizzazione attraverso il simbolico è possibile per quelle aree dove la riconnessione con il corporeo, l’emozionale, l’esperienza motorio-espressiva sia in qualche modo già avvenuta.
D’altra parte bisogna anche evitare quella concezione mistificante che vorrebbe la formazione come atto unico e irripetibile, in cui la creatività è una strada di totale soggettivismo, che si può percorrere solo con un rapporto empatico ed esclusivo col proprio analista didatta. Questa concezione mistica e duale del training finirebbe per eliminare gli aspetti formalizzabili e trasmissibili del processo, impedendo che su di esso si possa scientificamente far luce per modificarne il modello, migliorarne l’efficacia, includervi i risvolti delle più attuali ricerche cliniche.
Se invece cogliamo il parallelismo tra relazione terapeutica e relazione formativa, dobbiamo ricercare quali elementi del modello clinico vadano « ritrovati » nel momento di preparazione. Si vedrà allora la possibilità di individuare un gruppo di proposizioni scientifiche, appartenenti ad un’area ben definita, la Psicologia Clinica, le quali, rendendo comprensibile la strutturazione genetica del disturbo e tenendo conto di processi apprenditivi, siano in grado di progettare metodi e operazioni da utilizzare sia nel campo della « Psicoterapia » che in quello della « Formazione alla psicoterapia ».
— Una di queste proposizioni potrebbe essere, ad esempio, la necessità che il modello clinico renda comprensibile e dia ragione anche dei processi evolutivi; sia in grado, cioè, di leggere proprio nella formazione della personalità e nell’insorgere delle psicopatologie, a partire dalle prime esperienze di vita.
— Un’altra potrebbe andare nel senso di prendere in considerazione le forme e le esperienze delle relazioni plurime, cioè l’esistenza di un pensiero e di un vissuto gruppale all’interno dell’individuo. Perciò la formazione non potrebbe prescindere dall’aver attraversato in prima persona anche un training terapeutico gruppale. Si vede dunque come esistono elementi in grado di caratterizzare un’area epistemica che può definirsi sinteticamente « psicoterapia ». E intendiamo sia la parte che riguarda le ipotesi sulla struttura psichica e caratteriale dell’essere umano, con i suoi processi affettivi, di relazione, cognitivi; sia gli aspetti che concernono più specificamente interventi tesi ad alleviare il disagio e le sofferenze psichiche. È chiaro che ci si riferisce dunque alla « psicoterapia » non come ad un insieme di tecniche empiriche, ma come a sistemi e teorie complessi che si basano sull’esperienza e in essa si ricalano, dopo aver prodotto nuove idee e nuove ipotesi, in un ciclo di verifica continua. In tal senso la sperimentabilità non va vista solo riguardo ai risultati; ma va accolta come capacità del modello di includere e non contraddire le acquisizioni sperimentali e le proposizioni ad esso appartenenti, o anche ricavate dai più recenti contributi della Psicologia Clinica e di discipline contigue.
— Per fare un altro esempio, infine, anche la concezione di campo transfereziale, come condensazione di vissuti, emozioni e percezioni, collegata alla storia infantile, rappresenta un enunciato di base irrinunciabile quando si pone la persona stessa come strumento e tecnica fondamentale; quando cioè il processo terapeutico è nella relazione stessa. Il che accade sempre, almeno per certi aspetti, in ogni situazione in cui c’è una prestazione d’aiuto ad altre persone, e in particolare se questa prestazione è di tipo « psicologico >.
Il problema che nasce allora è analizzare, da parte di tutti gli approcci psicoterapeutici, i piani e i processi su cui sono implicati, nel campo transferale, il sé del paziente e quello dell’analista.
In questa direzione il modello dell’Analisi Caratteriale e della Psicoterapia corporea si sta muovendo nelle ultime ricerche. L’antica dualistica visione di un uomo spezzato in mente e corpo comincia ad arricchirsi di una visuale più ampia, d’insieme. Il concetto di S corporeo, costituito di funzioni originariamente integrate, presenti tutte sin dai primi periodi di vita e che Drocedono per successive complessificazioni e ramificazioni, sembra accogliere al suo interno le ultime acquisizioni scientifiche sulle complesse interazioni tra neonato e ambiente. Il corpo viene così visto da noi non come « luogo » o come sola « materialità », ma come strutturazione e regolazione di processi interconnessi, che abbracciano, ad esempio, la modulazione della postura e i movimenti muscolari; ma anche gli apparati fisiologici interni (respiratorio, vascolare, vegetativo, ecc); la formulazione del mondo delle immagini; lo strutturarsi delle varie forme di pensiero e di simbolo; e infine quel processo di correlazione tra percezione e significato dell’esperienza che è il vissuto emozionale.
L’intensa relazione di queste funzioni nel sistema più aperto costituito dall’ambiente interno ed esterno, può dare ragione di come possano intervenire graduali alterazioni degli equilibri, fino a trasformarsi in sconnessioni ed incongruenze più o meno profonde. L’andamento della stratificazione delle emozioni nel Sé corporeo è la traccia che resta delle alterazioni, cioè delle diminuzioni dei livelli comunicativi tra un piano funzionale e l’altro, e anche all’interno di ogni singolo piano. La storia dell’ammalarsi dell’individuo può così finalmente apparire come una vicenda unitaria più che un susseguirsi di disturbi, a volte cognitivi, a volte organici, a volte funzionali, oppure di tipo emozionale, o ideativo.
Sull’originarsi di tali sconnessioni, sulla stratificazione corporea delle emozioni, si basa oggi il filo portante della vegetoterapia caratteriale.
Nella relazione terapeutica vengono pertanto implicati tutti i piani su cui si struttura il sé corporeo; sia nel leggere in modo più allargato le vicende transferali, che nell’utilizzare in senso altrettanto ampliato l’andamento del proprio controtransfert. Non per curare in senso medicalistico anche malattie tradizionalmente « somatiche» od « organiche », ma per cogliere in senso unitario l’uomo che si ammala, per leggere e comprendere la storia profonda che lega tutte le sue sofferenze, i suoi disagi fino ad un suo cadere nell’ultimo tipo di difesa dalle frustrazioni e dalle aggressioni di una vita stressante: quello della “malattia”.