Intervento sull’Unità – 3 Maggio 1990.
Il rapporto tra salute psichica ed ambiente di lavoro: uno studio del centro “Wilhelm Reich” di Napoli torna a parlare della vecchia, dimenticata alienazione.
Sarà proprio tutto vero? L’evoluzione del lavoro si traduce in accresciuto benessere mentale dei lavoratori? La parola a Luciano Rispoli, psicologi, segretario in Campania della Società Italiana di psicologia e impegnato, presso il Centro studi “Wilhelm Reich”, di Napoli, a studiare il rapporto tra salute psichica e ambiente di lavoro. Finora gran parte dei ricercatori si è dedicata allo studio delle motivazioni, dell’achievement, del bisogno di affermarsi: temi che attengono tutti all’organizzazione del lavoro. Solo di recente si è tentato di comprendere l’influenza del modo di lavorare e dell’ambiente di lavoro sul benessere psichico di una persona. Come lo stress si collega alle alterazioni percettive. Come da acuto possa degenerare in cronico. Ma partiamo dall’inizio. Il lavoro, lo sanno tutti, è una componente primaria della vita di una persona. Ciò che accade nelle ore lavorative ha dunque un grande rilievo sulla sua psicologia. Già, cosa accade? Accade che durante il lavoro è costretto a rispondere ad una serie di stimoli, anche molto forti. Così viene a trovarsi in uno stato di vigilanza, di autocontrollo spinto, di sforzo concentrativo. Quello che noi chiamiamo stress acuto. Che, beninteso, è uno stato positivo: tutta la persona, il sé totale nel nostro gergo di psicologi, si attrezza per affrontare e risolvere la situazione nuova che ha dinanzi. Attraverso una serie di alterazioni psichiche, come eccitazione e tensione, e di alterazioni somatiche, come aumento della frequenza cardiaca e sudorazione.
«Talvolta, senza che la persona se ne rende conto – spiega Rispoli -, questo stato di massima allerta si cristallizza. Lo stress da acuto degenera in cronico: Il sé risponde ad ogni diverso stimolo come se fosse sempre in emergenza. Come e perché si verifica questa transizione è al centro dei nostri studi attuali. Secondo i quali la vecchia divisione dell’individuo in soma e psiche è inadeguata. Ecco il nuovo modello: il sé come combinazione di quattro grandi aree, a loro volta scomponibili: quella delle emozioni, quella cognitiva, la fisiologica e la morfologica (atteggiamenti e muscoli, per intenderci). La vita di un uomo è la dinamica storica dell’interazione tra queste grandi aree. Le interazioni possono essere talvolta scissioni: tra aree diverse (per esempio tra cognitivo e razionale) o all’interno di una stessa area. In questi cunei già aperti si insinuano le vicende sul lavoro, che vanno ad amplificare scissioni in atto. Così – aggiunge il ricercatore – se lei lavora in un ambiente che favorisce la scissione tra emotivo e razionale, dove per esempio una rigida organizzazione si accompagna ad uno stillicidio di piccole ingiustizie, se ha già una scissione tra le due aree se la ritrova amplificata. Senza magari che tra i suoi compagni si verifichi, percettibilmente, nulla di analogo». Ecco come nell’ambiente di lavoro può nascere uno stato di psicopatologia difficilmente diagnosticabile.