Luciano Rispoli psicologo: Verso una teoria complessiva del Sé.

in II Congresso Nazionale di Psicoterapia Corporea “Fondamenti scientifici di una teoria del Sé” Catania maggio 1992.

Nel seguente articolo Luciano Rispoli, psicologo e psicoterapeuta, procede nella direzione di sviluppare una Psicologia Funzionale del Sè, passando per le teorie storicistiche ed evoluzionistiche, fino ad arrivare ad una teoria complessiva del Sè.


Nel procedere verso una sempre più completa e definita psicologia complessiva del Sé, è possibile riconoscere un percorso, uno sviluppo progressivo che ha una lunga storia ed è costellato da numerosi contributi, alcuni più noti altri di meno, alcuni più “ortodossi” altri più “trasgressivi”. Certo è che le conoscenze sono andate man mano crescendo, alcune formulazioni rivelatesi errate vengono abbandonate, si corregge l’impostazione epistemologica di fondo, anche alla luce dei pregressi che le altre scienze dell’uomo hanno fatto in questi ultimi anni. Uno sguardo storicistico ed evoluzionistico ci permette oggi di capire che i vari approcci psicoterapeutici legati ai differenti modelli teorici altro non sono stati che successive sperimentazioni sul campo condotte da nuovi punti di vista, che hanno illuminato differenti aspetti del funzionamento del soggetto e della relazione interpersonale, ed hanno fornito nuovi contributi al completamento di un quadro complessivo. Certo il cammino non è stato lineare, né privo di sofferte contraddizioni e qualche volta di scontri violenti; cionondimeno è nettamente visibile, sotto gli occhi degli studiosi, ed estremamente affascinante nelle sue molteplici tappe. Anche all’interno della più recente “psicologia del Sé” non manca questa linea che è di sviluppo e al contempo di ritorni, di nuove idee spesso non “viste” e trascurate, di resistenze al cambiamento. Le varie accezioni, ad esempio, che il termine “Sé” ha ricoperto sono state molteplici, a volte poco chiare e spesso in parte contraddittorie. Eppure noteremo che ciascun contributo ha permesso gradatamente di aggiungere nuovi tasselli, nuove idee e nuove prospettive alla costruzione di un modello teorico più ampio e generalizzato.

La psicologia dell’Io

Anche all’interno dello sviluppo della Psicologia dell’Io, si affacciano sin dagli anni ’20-’30 concetti che possono essere considerati tappe successive verso una psicologia del Sé, e in particolare una psicologia Funzionale del Sé. L’attenzione si sposta infatti da una teoria biologico-pulsionale verso il concetto di Io, e verso il suo ruolo centrale nell’adattamento all’ambiente. L’attività difensiva più importante non è rivolta solo verso le pulsioni istintuali dell’Es ma anche e soprattutto ai pericoli provenienti dall’esterno. E’ il tema dell’adattamento che assume un posto centrale nell’Ego Psychology americana; un adattamento che definirei non solo “autoplastico” (modificazione del sistema psicofisico del soggetto) ma anche “alloplastico” (inteso come modificazione dell’ambiente da parte dell’individuo). Per Hartmann (….) l”Io sano” sarebbe caratterizzato da una mobilità in grado di sostenere un buon adattamento con il mondo esterno. E’ lo stesso principio di realtà che viene concepito “in termini di funzioni dell’Io”, quali ad esempio la percezione, l’obbiettivazione, l’anticipazione, l’intenzionalità. Kris (….), di più, mette in evidenza il ruolo organizzativo e di autoregolazione dell’Io. Qui si parla di integrazione dell’Io nei processi di adattamento (in particolare quelli artistici) e di funzione integratice e sintetica dell’Io. E’ curioso notare come in tutti gli esponenti della Psicologia dell’Io permane, (con una impostazione non chiarita nel nuovo quadro teorico) il concetto di pulsione e di energia pulsionale, quasi come un elemento “intoccabile” della costruzione psicoanalitica. Ma purtuttavia è interessante seguire come a poco a poco si faccia strada una concezione “autonoma dell’Io”, nella quale si mette in luce un’intima connessione tra le componenti genetiche e quelle adattive,  nel suo sviluppo. Gli apparati autonomi innati dell’Io (somatici e mentali) ne costituiscono una delle più importanti radici. L’Io allora viene ad essere considerato primariamente autonomo dalle pulsioni e comincia a configurarsi, perciò, come ciò che organizza sin dall’inizio l’intero campo delle funzioni di adattamento e di scambio con l’ambiente. Già Hartmann prospettava un processo di “diferenziazione all’interno dell’Io”, per il quale emergono e vanno specializzandosi dei sottopiani al suo interno (tra i quali anche il carattere di una persona). D’altra parte tutti questi piani e queste funzioni vengono coordinati in un ordinamento gerarchico sotto il controllo centralizzato dell’Io stesso. Il passo ad una concezione generalizzata di varie funzioni (sia psichiche che corporee) in un insieme profondamente integrato e interconnesso, che si sviluppano per differenziazione, e che interagiscono attraverso una organizzazione complessiva primaria che prende il nome di Sé, non è poi tanto lungo.

La psicologia del Sé

SE’ ESPERIENZIALE

Pur variando in molteplici significati differenti, che spaziano dal vissuto ad un insieme di idee della mente, dalla cosa psichica primitiva agli stili comportamentali, dalle predisposizioni caratteriali al nucleo interno intoccabile, il termine “Sé” fino a poco tempo fa è stato restrittivamente riferito essenzialmente a due diversi ordini di interpretazione: Sé esperienziale oppure Sé strutturale. Il primo significato è molto diffuso nella psicologia e nelle teorie della personalità che hanno preceduto la fase contemporanea. Il Sé viene inteso qui come esperienza di Sé o come rappresentazione di Sé. E’ il modo in cui ci percepiamo, il vissuto, il modo di cogliere introspettivamente la nostra psiche; dunque è un contenuto della nostra coscienza e anche del nostro inconscio. Queste rappresentazioni di Sé sono multiple perchè multipli sono i vissuti: queste moltitudini di vissuti di sé non costituiscono parti differenti, bensì versioni della persona stessa raggruppate attorno ad esperienze, comportamenti e conformazioni attive in differenti contesti relazionali. Fairbairn (….) negli anni ’50 pensava all’individuo come organizzato in Io susssidiari che non sono né idee, né parti della persona. Ne deriva una concezione di un Sé discontinuo e multiplo. Mitchell (….) chiarisce bene come a questa concezione appartengano le teorie delle relazioni oggettuali della scuola inglese, dal momento che si possono “guardare le relazioni oggettuali interne come una descrizione degli impliciti e largamente inconsci sensi di Sé”. (Mitchell, ibidem, p….) Questi ultimi, a loro volta, sarebbero sottostanti alle differenti transazioni interpersonali su cui ruota la concezione di molteplicità operativa della persona tipica di Sullivan(    ) e quindi della scuola interpersonalista. Ma la concezione esperienziale del Sé la ritroviamo anche in formulazioni che tendono a dare uno spazio privilegiato all’esperienza di Sé come integrale e continuo. Malgrado le variazioni di condizioni relazionali l’individuo riconosce tutte queste versioni come versioni di un invariante Sé stesso. C’è un senso di Sé indipendente dal contenuto. La psicologia del Sé si è particolarmente occupata di questi aspetti del funzionamento della mente umana. In Kohut (    ) lo sforzo di organizzare e mantenere un senso integrato del Sé è per l’individuo una spinta profonda e centrale. E’ la stessa esperienza di vita che va costituendo il nucleo centrale del Sé. Possono esserci, è vero, Sé intrappolati in varie scissioni, ma sono condizioni nettamente patologiche. Anche gli “oggetti-Sé” di Kohut si riferiscono all’esperienza di sé, all’esperienza di un qualcosa che è al contempo oggetto e parte di sé. Per Stern (    ) questo “senso di un Sé nucleare” si basa su “costanti del Sé” alcune delle quali presenti sin dalla primissima infanzia. Queste costanti, intersecandosi con l’esperienza vissuta, con attitudini di attività, continuità, coerenza, affettività, creano un senso di prospettiva soggettiva. Dunque potrebbe sembrare che le varie versioni del Sé, le rappresentazioni multiple del Sé, di cui si è parlato pocanzi, dimostrino che l’esperienza di unità e continuità è del tutto illusoria se è solo il modo in cui una persona si rappresenta a se stessa. In questa concezione totalmente “esperienziale” non vi sarebbe contraddizione tra molteplicità (il Sè cambia continuamente; non è mai lo stesso nelle diverse esperienze relazionali) e la sensazione di unità con cui il soggetto si vive illusoriamente.

IL SE’ STRUTTURALE

Il pericolo che si corre, dal momento che si vuole cercare nelle concezioni del Sè qualcosa che vada al di là dei soli vissuti e delle sole rappresentazioni, è quello della reificazione tout court di un modo di viversi e percepirsi. L’esperienza di sè sarebbe immediatamente quella di una realtà interna, di una struttura che è esattamente così come la percepiamo. La reificazione dell’esperienza di un vero Sé si appoggia alla concezione di un nucleo interno immutabile, ma al contempo ineffabile e in qualche modo irraggiungibile. Una concezione idealistica e ontologica del Sé la si può ritrovare, tra l’altro, nelle strutture archetipiche di Jung, nell’accento su di un Sé creativo posto da Adler, o nella spinta autonoma all’autorealizzazione di Biswanger. L’ipotesi di esistenza di un “vero Sé”, profondo, che deve essere protetto dagli urti del mondo esterno, nonostante debba potersi riferire alle rappresentazioni mentali, non può non richiamare l’idea di una struttura o un’entità trascendente (Winnicott). La psicologia umanistica, per altri aspetti, riprendendo in forma banalmente pragmatica l’esistenzialismo europeo, si riferisce ad una realtà esistenziale strutturata, ad una tendenza autonoma alla autorealizzazione (Maslow, Rogers). Concetti come inconscio e conflitti vengono fortemente ridimensionati a favore di una potenzialità immanente di un progetto di autorealizzazione. In Rogers vi è la semplicistica fiducia che questa struttura del Sé, per potenzialità universalmente innate che crescono e maturano, permette a chiunque (con l’aiuto al massimo di un cosiddetto “facilitatore”) di superare i conflitti e raggiungere la pienezza emotiva. Al pericolo di una reificazione o di una metafisica trascendente del Sé non si sottraggono correnti della psicologia biologistica, concezioni mistiche transpersonali, i filoni orientaleggianti delle psicoterapie a matrice trascendentale, approcci psicosintetici, organismici, cosmici, sofrologici.

AL DI LA’ DI UNA CONCEZIONE DEL SE’ PURAMENTE ESPERIENZIALE

La domanda che dobbiamo porci è perchè l’individuo si percepisca sempre come qualcosa di unitario e integrato. Perché ciascuno ha la tendenza a credere all’esistenza di un “qualcosa” al suo interno che assicura la continuità delle esperienze, che assume caratteristiche tipiche che permettono di contraddistinguerlo, che contribuisce a mantenere un’identità? Il modo in cui ci si rappresenta all’esterno molto spesso è differente da come si pensa di essere, non coincide con la propria autorappresentazione. Il fatto che la nostra rétina riceva tante immagini, staccate le une dalle altre (pensiamo al battito delle ciglia) e non stabili (per i continui movimenti della testa e del corpo) non significa che il cervello non le possa elaborare mostrandocele stabili, integrate e continue (e non come con una telecamera in traballante movimento). Ma c’è una enorme differenza tra le immagini che percepiamo elaborate e stabilizzate e l’apparechiatura che le ha prodotte e utilizzate. Uscendo di metafora, le immagini, cioè le rappresentazioni di sé, possono anche essere manipolate, fino a darci un senso di continuità a partire da una serie di differenti esperienze (pur sempre esperienze di noi stessi, però) frammentate; ma c’è un’organizzazione che le produce e le utilizzza, così come produce ed utilizza molte altre rappresentazioni (oltre a quelle di noi stessi), nonché sensazioni e percezioni su altri piani del Sé (dunque immaginazioni, pensieri, ma ancche sensazioni fisiche propriocettive ed eterocettive). L’organizzazione, allora (complessa ma al contempo unitaria) non è un’illusione della persona, perché regola i prrocessi funzionali  sui vari piani, al di là delle sole autorappresentazioni. E’ l’organizazione dunque che fornisce una continuità al mare delle esperienze, all’eterogeneità degli accadimenti; è l’organizzazione ad essere essa stessa continuità: continuità nel tempo e continuità da un piano all’altro del Sé. Le personalità multiple non costituiscono per nulla la dimostrazione che il Sé è frammentato, ma piuttosto che una delle sue funzioni (e solo quella) si è alterata e non fornisce più quell’elaborazione delle rappresentazioni di se stessi in grado di fornire appunto il senso di continuità (da una condizione all’altra del Sé), la presenza di una soggettività continua e duratura. Dunque perchè continuare a ritenere che il senso di continuità sia solo un’illusione e non sia invece un qualcosa di profondamente sentito e sperimentato sin dalla primissima infanzia? Sia un modo di funzionamento tipico della persona, che non coincide né con le relazioni con gli altri, né con le rappresentazioni di Sé, né con un’entità ontologica chiusa dentro di noi, ma una “identità individuale più intima” (Kennan     ), che solo successivamente può perdere la propria continuità e la propria integrazione? D’altra parte non si può semplicisticamente pensare che le versioni multiple del Sé della più recente letteratura coincidino con la vecchia concezione semplicistica delle rappresentazioni di Sé, o che il senso di continuità di Sé possa essere scambiato con il classico concetto dell’Io. Sono numerosi gli autori che hanno cominciato a pensare che dovesse esserci qualcosa di maggiormente complesso e organizzato che presiedesse ai rapporti con la realtà, o che organizzasse il funzionamento sui vari livelli e nelle differenti condizioni esperienziali. Per “versioni multiple del Sé” infatti si intende qualcosa di più di differenziazioni nell’autopercepirsi: <<sono modi di essere, versioni dinamiche di Sé, attività funzionali, forgiate attorno a rappresentazioni. Ognuna di tali versioni fa tutte le cose generalmente attribuite all’Io>> (Mitchell). Ma ancora una volta questi “insiemi di funzioni”, che si mettono in moto a seconda di certe condizioni (interne o esterne che siano), rivelano l’esistenza di un’organizzazione complessiva che le produce, le mette in atto, le regola. Se è vero che il Sé cambia continuamente nel tempo, possiamo però ipotizzare che ciò non avvenga del tutto casualmente, attraverso situazioni staccate una dall’altra, ma attraverso modalità di cambiamento ben precise. Possiamo cominciare a pensare a configurazioni che mutano seguendo delle leggi interne alla stessa organizzazione del Sé. Si potrebbe allora parlare di molteplicità e complessità senza che vi sia una contrapposizione all’integrazione e all’unità. E’ proprio questo concetto dell’esistenza di un quadro unitario di organizzazione, di organizzazione di funzioni, che ci permette di uscire dall’ambito di un modo di vedere il Sé puramente esperienziale.

Rappresentazioni di sé (a noi stessi e all’esterno) e percezioni del mondo circostante, sono solo aspetti, parti, di tale organizzazione. Non vogliamo dire che l’esperienza di Sé è direttamente l’esperienza di una sottostante realtà esistente come struttura, né che Sé esperienziale e Sé reale coincidano o siano sovrapponibili. Vogliamo piuttosto dire che il Sé è una realtà solo nel senso di essere l’organizzatore delle esperienze, la funzione integratrice delle relazioni e delle rappresentazioni, e che di questo rimane traccia nella concezione universale che l’uomo ha della propria unità e integrazione. E’ l’esperienza di un Sé integrato che permane in ognuno, al di là di che tipi di Sè sono contenuti nell’autocoscienza; è la presenza di questa organizzazione che si fa sentire, indipendentemente dalle forme e dai contenuti di alcune sue funzioni, quali i contenuti dell’autocoscienza, i vissuti, le rappresentazioni consce e inconsce, le modalità delle relazioni. L’insieme delle funzioni organizzate e integrate determina i modi delle esperienze, e ne è a sua volta determinato, ma non coincide con i contenuti, i quali invece, a seconda delle funzioni che stiamo esaminando, costituiscono appunto quello che viene definito il Sé esperienziale. La domanda che ci si pone a questo punto è se e come sia possibile sviluppare un modello del funzionamento complessivo della mente, o più in generale dell’individuo, superando le carenze e le inadeguatezze (rispetto ai notevoli avanzamenti delle conoscenze scientifiche) della concezione topica-strutturale dell’Io-Es-SuperIo, andando oltre le non del tutto soddisfacenti formulazioni della Ego-Psychology americana, e oltre anche la limitatezza di una concezione puramente esperienziale del Sé. E’ possibile concepire il Sé come qualcosa che non sia solo contenuto della mente, né solo una sua funzione, ma che al contempo non rappresenti una ricaduta in un costrutto epistemologicamente inaccettabile di cosa in sé, di reificazione di processi, di struttura nel senso di entità. Un notevole aiuto alla comprensione di come sia possibile procedere in tale direzione ci viene da un’analisi delle interazioni e dei rapporti mente-corpo, e dall’altro dalle molteplici e relativamente recenti scoperte sulla vita neonatale dei bambini. Pur esssendo questi due aspetti completamente intrecciati, faremo il tentativo, per una maggior chiarezza, di esaminarli separatamente.

Il rapporto mente-corpo

Sull’intersecarsi di questi due aspetti del funzionamento degli esseri viventi vi è una tale abbondante letteratura, nel campo di molteplici discipline, che non è possibile qui neppure solo menzionare. Ma il problema non è mettere in discussione se vi sia o meno un rapporto tra mente e corpo, quanto piuttosto che tipo di rapporto vi sia. L’ipotesi di un corpo subordinato alla mente, di una struttura gerarchica con la mente alla sua sommità, ha per un lungo periodo implicitamente o esplicitamente prevalso sulla scena della psicologia e della neurofisiologia, in particolare nel campo della psicologia clinica e soprattutto all’interno dei modelli teoretici della psicoanalisi e successivamente sistemici e cognitivisti. Ciononostante sono stati sempre presenti e numerosi i dati, le ricerche, i sostenitori che suggerivano e suffragavano una concezione diversa del rapporto corpo-mente, anche all’interno dei modelli più fortemente “mentalistici” o “simbolisti”. E’ a sostegno di questa concezione che è possibile confrontare una vasta e varia letteratura. Ma ciò che vorrei qui sottolineare è che una spinta decisiva in tale direzione è venuta dall’utilizzo diretto del corpo in psicoterapia. Quest’utilizzo ha portato alla luce una tale quantità di fenomeni sul rapporto mente-corpo che non potevano più essere ignorati; fenomeni ed eventi che per la prima volta emergevano all’interno di un processo di relazione terapeutica, e che perciò non erano legati all’artefatto del laboratorio, ma al funzionamento psicofisico del soggetto. I fenomeni che si rilevano in psicoterapia corporea sono di vario tipo; in ogni caso costituiscono una esperienza altamente affascinante per chi vi si addentri, sia per l’intensità con cui si presentano, sia per la vividezza del loro significato semplice e diretto, al di là di qualunque ambiguità interpretativa. Possono essere, di volta in volta, un pianto irrefrenabile a pieni singhiozzi in chi non ricordava di avere mai pianto in vita sua (se non qualche lagrima silenziosa); un allentamento dolce del controllo in chi si è sempre indurito contro la vita; un abbandonarsi come un bambino piccolo nelle braccia del terapeuta; una vocina flebile proprio come di un neonato che richiama attenzione; il grido di paura che si scatena quando si sgretola una falsa sicurezza; il poter “stare” sognanti e soddisfattii dopo essere stati “nutriti” a sufficienza dal terapeuta; il tremito che sconvolge tutto l’organismo; le “ondate” che attraversano il corpo; le posture intensamente regressive o addirittura “fetali”; il riso che scoppia in piena crisi depressiva; lo stato profondo di contatto con sé stesi con i livelli di coscienza, attenzione e vigilanza che si modificano completamente (non è sonno, né trance ipnotica); i lineamenti del volto che trasfigurano in una maniera che ha dell’incredibile. Di alcuni di questi fenomeni abbiamo già parlato come stati o esperienze basilari del Sé. Poterli rilevare direttamente durante una seduta di psicoterapia, con tale intensità ed evidenza, non ha potuto che portare ad un ripensamento delle vecchie teorie sul funzionamento psicocorporeo, ed in particolare ad alcuni nuovi concetti di estrema importanza: quello della memoria corporea (o periferica e diffusa), quello della stratificazione emozionale nei vari distretti corporei, e infine quello della influenza circolare tra somatico e psichico. Rimandando ad altri scritti la descrizione più diffusa e detagliata di tali costrutti, qui possiamo riassumere sinteticamente i dati e le constatazioni che, derivando sia dall’esperienza diretta in campo clinico sia dalla letteratura inerente all’argomento, costituiscono il punto di partenza per una differente concezione del rapporto mente-corpo. Il punto di vista scientifico che sostiene l’influenza dello “psichico” sul cosiddetto “somatico” ha fatto da supporto a quel modo di osservare il funzionamento dei soggetti (in particolare nelle manifestazioni di alcune patologie tipiche) che ha preso il nome di psicosomatica. Ma è oggi altrettanto inconfutabile l’influenza, sotto molteplici aspetti, del “corporeo” sullo “psichico”, un campo di indagine che prende il nome di somatopsichico, e di cui molti autori si stanno occupando. D’altronde i contributi teorici nella direzione di un’intreccio indissolubile tra psiche e soma, anche se spesso senza una chiarezza della portata di tale formulazione, sono venuti da più parti, a cominciare dall’insistenza dello stesso Freud per porre su solide basi biologiche la costruzione della psicoanalisi stessa; o dalla sua asserzione che l’Io trae origine da un “Io corporeo”. Ricordiamo qui Ferenczi (    ) che con la sua “tecnica attiva” arrivava all’intervento diretto sul corpo del paziente come unica possibilità in qualche circostanza di modificare situazioni di angoscia o di stallo. Di Winnicott (    ) è il concetto di uno psiche-soma unitario originario, che solo successivamente si scinde per l’alleanza tra intelletto e psiche. Altre volte abbiamo richiamato il protomentale di Bion (    ). Balint (    ), ancora più che Winnicott, fa riferimento alla necessità di contenimento, e non solo di tipo metaforico, nei confronti dei pazienti, per offrirgli delle esperienze diverse che “risanino” gli intoppi evolutivi. This (    ) scopre l’importanza del tocco nella terapia; Casement (    ) pone l’accento sull’insufficienza dell’analisi del transfert e sulla necessità di includere nella terapia, secondo certe modalità, la soddisfazione dei bisogni, ma si ferma davanti all’antico tabù del corpo per la psicoanalisi. Gill (    ) si distacca dai concetti classici di setting, prospettando tutta una serie di possibili modificazioni per arrivare a determinare criteri sostanziali che caratterizzino gli interventi psicoanalitici. Speziale Bagliacca (    ) sostiene la funzione di contenimento per la strutturazione del Sé del paziente, un contenimento che consiste in un “prendere dentro” <<con la mente, ma non solo con la mente>> (p.68). Jacobson (    ) prende in considerazione un “primitivo Sé psicofisiologico”. Ogden (    ) fa riferimento ad un “piano sensoriale” dell’esperienza che egli chiama la dimensione contiguo-autistica, in relazione alle precocissime relazioni del bambino con la madre-oggetto e con la madre ambiente. All’interno di tale modifica di prospettive si collocano i dibattiti sulla psicoterapia psicoanalitica, sulle psicoterapie brevi, sulla psicoanalisi di soggetti borderline o psicotici, sulla psicoanalisi dei bambini, sulle tecniche psicoanalitiche vis à vis, sul rilassamento psicoanaliticoSu un altro versante delle teorie cliniche, il filone della Gestalt da tempo mette l’accento sull’importanza delle modificazioni corporee, sia come segnali, sia come vissuto, sia come possibilità di contatto profondo. E’ un dato dei più recenti che alcuni esponenti delle teorie relazionali incomincino a introdurre l’utilizzazione del corpo direttamente nell’intervento terapeutico, con qualche primo tentativo di teorizzarne le motivazioni. Naturalmente di Reich, quale iniziatore di una concezione basata sull’identità psiche-soma è addiritura superfluo parlare, così come è pleonastico dire che dell’interazione tra questi due aspetti sino ad oggi (da 60 anni a questa parte, cioè) se ne è occupata l’area teorico-clinica che possiamo definire della psicoterapia corporea, o psicocorporea. Per tutto quanto è stato prodotto in quest’area rimandiamo sia ai testi precedenti di chi scrive, sia alla bibliografia specifica. La produzione scientifica della psicoterapia corporea, per quanto non molto abbondante, è significativa per la modificazione del concetto di interazione mente-corpo, anche se più nel senso di fornire una ricca casistica di interventi diretti sul corporeo che di una sistematizzazione del quadro teorico complessivo, di cui anzi si è sentita fortemente la mancanza. Cogliamo l’occasione per sgombrare il campo da un equivoco di fondo, per troppo tempo non chiarito: la psicoterapia corporea non designa un campo di intervento, non è caratterizzata dal fatto che nella tecnica psicoterapeutica si interviene sul corpo. L’area dela psicoterapia corporea, invece, è definita da una particolare teorizzazione del rapporto corpo-mente, profondamente differente da quella gerarchica e piramidale classica. Dunque se si vuole prendere in considerazione il funzionamento del’insieme psiche-corpo (e non solo della mente come entità a sé stante), sia nello sviluppo evolutivo che nella teoria della tecnica, non è pensabile che si ricominci daccapo, come se non ci fosse già stato un lungo cammino scientifico percorso dalla psicoterapia corporea, fatto di dati, di sperimentazioni, di deduzioni, di verifiche. Ogni altra teorizzazione che volesse ricominciare come se non ci fosse niente correrebbe il rischio (oltre ad essere antistorica e antiscientifica) di trascurare elementi oramai acquisiti e consolidati dalla psicoterapia corporea, e di pervenire a formulazioni teoriche inadeguate, parziali, scorrette od inefficaci.

CARENZE DELLA CONCEZIONE CLASSICA DELL’IO

La concezione psicoanalitica dell’Io, al di là delle differenze di sfumature che è andato acquisendo man mano che ci si spostava da un’impostazione più specificamente pulsionale ad una che prendeva maggiormente in considerazione le relazioni oggettuali, risulta per molti aspetti carente ed inadeguata. Basti pensare, seguendo Freud, all’Io come parte organizzata dell’Es che ha sì funzioni di strutturazione-integrazione, ma inscindibili da esigenze di difesa nei confronti delle pulsioni e di adattamento alla realtà (Jervis p 5). L’Io dunque controllorebbe l’intero funzionamento del soggetto pur essendo una istanza tutta all’interno del piano del solo mentale. E, bisogna aggiungere, che anche all’interno di quest’ultimo, l’Io non rappresenta che una parzialità nella concezione tripartitica di Es-Io-SuperIo. E’ vero, come abbiamo visto, che molti autori pongono come premessa alla nascita di questa istanza mentale una base “corporea”, ma tale base è considerata quasi sempre solo nella sua esistenza pre-psichica, una sorta di esistenza “vegetativa” dalla quale in un secondo momento nascono il pensiero, la coscienza, e le funzioni mentali adulte e superiori. Il vecchio concetto di Io prevede un modello di funzionamento in cui una mente adulta controlla in piena supremazia tutto il resto. D’altra parte se l’Io non si forma che solo successivamente (seguendo questa concezione), non è possibile che il neonato sia in una relazione piena con il mondo esterno, perché non è neppure in grado di elaborare né le frustrazioni, né le gratificazioni; cioè non è in grado di utilizzare le esperienze autonomamente, rielaborandole e integrandole nel proprio funzionamento psicocorporeo. Infine c’è da notare che anche per l’Io vi è il rischio (forse ancora maggiore se letto alla luce di una serie di formulazioni classiche) di cadere in una concezione di entità reificata, di realtà ontologica, in quanto struttura della mente. Per chiarire ulteriormente quali siano i punti deboli e carenti che devono essere superati in favore di una concezione diversa del funzionamento psicofisico dell’individuo è utile analizzare questi temi da due ulteriori punti di vista: l’adultomorfismo delle vecchie concezioni del funzionamento infantile e, il problema della nascita della mente e dello sviluppo del pensiero in relazione al corporeo.

LA NASCITA DEL MENTALE E LA RELAZIONE MENTE-CORPO

Un primo modello nel quale possono essere riassunte gran parte delle posizioni precedenti o “classiche” sulla nascita della vita psichica e di relazione del neonato è del tipo tracciato nella seguente figura. La freccia che indica la direzione dello sviluppo ci mostra come il bambino veniva considerato all’inizio della sua vita come un essere puramente neurofisiologico. Le prestazioni del bambino erano considerate l’effetto di riflessi meccanici e da istinti privi di un corrispettivo mentale o esperienziale. E’, per altri aspetti, anche la teoria del narcisismo primario, delle soglie percettive alte che lo isolano dal mondo esterno, della mancanza iniziale di un Io in grado di elaborare le esperienze (per cui il neonato non capisce e quindi neppure ha “sensazioni”). E’ anche la teoria dell’influenza dei “3 cervelli” sullo sviluppo del pensiero e della vita, cioè dell’esistenza di un cervello “rettiliano” alla base del nostro psichismo, che può entrare in funzione separatamente dagli altri due più evoluti, prendendo in alcuni casi il sopravvento e conducendoci ad un funzionamento più primitivo di quello dei mammiferi! Immediatamente successiva a questa vita puramente neurofisiologica veniva a volte considerato il sorgere di un mentale estremamente primordiale, ben lontano dalle capacità più adulte e mature di “sentire”, “elaborare”, ecc., ma che si avvicina piuttosto a un “reagire” secondo schemi fissi e in certo senso biologici, come nel protomentale” di Bion, o nello “psiche-soma” di Winnicott. Per Winnicott va fatto un discorso comunque separato, perché mentre nei passi in cui si riporta a concetti teorici generali continua a sostenere la mancanza di un Io strutturato all’inizio della vita, accettando l’ipotesi di narcisismo primario, e aderendo alla formulazione kleiniana di una mente frammentaria, nella descrizione concreta della relazione madre-bambino sembra poi distaccarsene notevolmente in favore di un’esistenza piena e unitaria del neonato, autonoma, bisognosa di un contenimento sia fisico che psichico da parte della madre. In altri casi questa vita mentale primordiale è stata considerata possibile, ma solo in rapporto a quella della madre. Il bambino è stato concepito in una condizione iniziale di simbiosi, e  non avrebbe una sua autonomia di funzionamento psichico, nè distinguerebbe il Sé dall’esterno, vivendo come in un bozzolo materno che funziona, in un certo senso, in sua vece. (Mahler) La freccia che in figura indica il funzionamento rappresenta invece la direzione inversa a quella del formarsi del mentale adulto, nel senso che questo, una volta costituitosi, controlla completamente (come riportavamo a proposito della concezione classica dell’Io) tutto il funzionamento complessivo dell’individuo, in una configurazione tipicamente gerarchica, piramidale. Il mentale adulto è “in alto” e dall’alto della sua nobiltà di esistenza comanda al “basso” del corporeo, determinandone completamente il funzionamento. Rispetto al problema dell’integrazione o non-integrazione primaria, il modello si presenta come in figura. Come si può notare l’andamento è sempre di tipo “piramidale”, e l’integrazione rappresenta solo un passo successivo dello sviluppo, un punto di arrivo. In entrambi questi modelli veniva negata l’esistenza di una serie di capacità, durante la vita neonatale, che l’esperienza e la ricerca hanno dimostrato invece esserci: apprendere; analizzare, discriminare e comparare; esplorare con lo sguardo; saper entrare in “contatto”; avere sentimenti in un’interezza di rapporto con l’adulto; capacità di assimilazione oltre che di accomodamento (per dirla con Piaget); capacità non solo adattive, ma di muovere l’esterno verso i propri bisogni; consapevolezza dell’oggetto; differenziazione del non Sé; schemi e organizzazione della realtà percepita; coscienza. Jervis decreta con molta chiarezza il tramonto definitivo, perché inadeguate e contraddette dalla ricerca, della teoria del narcisismo primario e della simbiosi. <<il neonato, (è) – come da non molto si è scoperto e come oggi tutti ormai sanno – capace di fare una quantità di cose straordinarie>> (Jervis    p 21); <<gli psicoanalisti di oggi – tramontata l’idea del narcisismo primario – hanno cominciato a ricorrere volentieri a una confusa idea di autocoscienza per spiegare comportamenti interattivi di bambini sotto l’anno di età>> (p 26). E sulla simbiosi: <<possiamo comprendere molto meglio quanto sia errato sostenere che il lattante “confonde” interiorità e mondo esterno, corpo e ambiente; in altre parole è ora chiaro quanto sia inesatto dire che egli esperisce una “rappresenazione indifferenziata sé-oggetto. …Molto più semplicemente, non solo per il lattante, ma per il bambino nel primo anno di vita, come per l’animale, il mondo “interno” e il proprio corpo, non possono venir concettualizzati e neppure percepiti come tali. Tutto é, senza alcuna “confusione”, immediatamente oggettivo, compresi fantasie, sogni, dolori gastrici.>> (p 28) Queste affermazioni ci permettono di introdurre le due prossime questioni, che riguardano comunque la nascita della vita psichica del bambino: l’errore tipico dell’adultomorfismo e il rapporto tra coscienza ed autocoscienza.

ADULTOMORFISMO

Un altro modo di interpretare l’inizio della vita psicofisica dell’individuo si basa sull’ipotesi della presenza di un mentale sin dall’origine; un mentale già strutturato, con forme e caratteristiche che sono già quasi quelle tipiche della persona adulta. La Klein, ad esempio, sosteneva (in contraddizione con altre sue formulazioni che che possono piuttosto considerarsi appartenenti al modello precedente) l’esistenza di una vita di pensieri e fantasie nel neonato intensa, simili nella forma a quelle elaborate dall’adulto. Nella figura la freccia dello sviluppo è dal mentale al corporeo, poiché in questo modello sarebbe un mentale preesistente a informare gli altri piani di funzionamento dell’individuo, sia psichici, ma soprattutto corporei. Successivamente, da adulti, sarebbe ancora la struttura mentale, così come accadeva nelle prime fasi di vita, a continuare a controllare dall'”alto” tutto il funzionamento dell’organismo. Diversi autori si sono recentemente orientati su un’idea di coscienza (come negli adulti) presente sin dall’inizio, in grado di regolare la vita infantile e di organizzare le capacità oramai riconosciute presenti nel bambino piccolo. In questo tipo di impostazione, che potremmo definire “adultomorfica” rientrano anche tutti coloro che continuano a sostenere una concezione dell’Io come unica forma di organizzazione psichica del soggetto. Infatti se si ammette che l’Io esista sin dall’inizio si cade nell’adultomorfismo, si nega una vita mentale nel bambino diversa da quella adulta, dal momento che l’Io è concepito come una istanza o una struttura tipicamente adulte. L’altra alternativa possibile è la posizione di quanti considerano che ad un Io integrato si arriva solo successivamente: ma in tal caso si verrebbero a negare le possibilità di esperire la realtà da parte del neonato, di aprrendere, di ricevere gratificazioni e frustrazioni, (prima della nascita dell’Io), in contraddizione con le recenti acquisizioni scientifiche. Bene puntualizza Jervis quando afferma che <<sia la ripartizione della prima topica (conscio, preconscio, inconscio), sia la tripartizione strutturale della seconda (Io, Es, Super-io) definiscono un universo psicologico il cui referente implicito è non già la vita psichica primitiva del bambino piccolo, ma l’autocoscienza adulta: è in riferimento a quest’ultima che si hanno da un lato l’inconscio, da un altro le parti inconsce dell’Io, del Super-io, e lo stesso Es.>> (p 17 18) Non avrebbe più molto senso allora neppure la posizione di coloro che sostengono che sia l’Io a produrre rappresentazioni e immagini di sé, anche in una fase precoce. In altre parole tutti i vissuti e le esperienze di sé, che costituiscono come abbiamo visto il Sé esperienziale, secondo queste ipotesi non influirebbero minimamente sulla strutturazione interna, ma sarebbe viceversa la organizzazione interna a produrre esclusivamente il modo in cui ci si percepisce. Per chiarire questo punto basta non confondere tra loro le rappresentazioni di sé da una parte con la consapevolezza che quelle rappresentazioni (comunque esistenti nel neonato) sono riferite a se stessi, a un qualcosa individuabile come Sé, dall’altra. E’ solo questa consapevolezza di sé, l’autoconsapevolezza, a presentarsi sulla scena più tardi, e ad essere generata dalla struttura interna; altrimenti dovremmo concludere che il bambino non ha per nulla immagini e rappresentazioni. Le rappresentazioni di sé costituiscono la continuità con noi stessi, sono radici e basi del nostro modo di funzionare e come tali (al di là della consapevolezza che tali immagini si riferiscano a noi stessi) sono contenuti della coscienza o più in generale della mente. Sappiamo però oggi con molta chiarezza che arcaiche esperienze (di sé o dell’ambiente non ha importanza) persistono anche sotto forma diversa dalla coscienza o del mentale, ad esempio come memoria corporea, una memoria che non è immagazzinata nei banchi neuronici centrali del cervello, ma che è contenuta nelle posture, nella muscolatura, nei funzionamenti dei sistemi nervosi periferici. Dunque le esperienze non sono solo contenuti mentali, ma sono presenti in diverse altre funzioni e concorrono sin dall’inizio alla strutturazione di quel qualcosa che regola e organizza il funzionamento complessivo dell’individuo. Le immagini di Sé non costituiscono certamente di per sé struttura mentale (anche perché non siamo d’accordo con una concezione strutturale); ma possiamo a buon diritto affermare che le esperienze di sé, immagazzinate sui vari piani, influiscono continuamente e gradatamente sull’organizzazione interna. Non si può quindi affermare che le esperienze di sé sono generate esclusivamente dall’organizzazione interna, ma che l’organizzazione interna è plasmata dalle esperienze di sé e a sua volta ne condiziona le forme successive. Ancora una volta l’introduzione diretta del corporeo (o meglio di un differente modello il rapporto corpo-mente) ha permetsso di interpretare con maggior chiarezza i dati della ricerca sul funzionamento neonatale, e di tradurli più facilmente in un coerente quadro teorico complessivo (che si presenta profondamente diverso da quelli classici). L’introduzione del corporeo pone l’insieme dei fenomeni in una prospettiva “a tutto tondo”, a più dimensioni, capace di sistematizzare in modo soddisfacente le novità scientifiche degli ultimi anni. Analogamente la tendenza dell’uomo a pensare in termini di un Sé profondo e unitario, a rappresentarsi a partire da un Sé integrato, può trovare spiegazione se ci si pone all’interno di una cornice che prenda in considerazione la continuità di esistenza su più piani e funzioni, profondamente interconnessi, interagenti, integrati tra loro sin dall’inizio. Uno dei problemi connessi con il sorgere di una vita mentale del neonato è quello della coscienza e dell’autocoscienza.

LA COSCIENZA E L’AUTOCOSCIENZA

Se noi distinguiamo con maggiore precisione questi due aspetti dello psichismo, potremo arrivare a individuare le modalità attraverso le quali va sviluppandosi il funzionamento della mente umana, o più in generale dell’insieme psicocorporeo, superando concezioni carenti e limitate ma senza cadere in dannosi errori di adultomorfismo. Oggi sappiamo che anche gli animali più semplici, pur avendo un funzionamento determinato in misura di gran lunga maggiore da una programmazione genetica, sono capaci di costruire schemi e immagini della realtà che forniscano loro mappe ricognitive alle quali adeguare i patterns geneticamente presenti. Esiste dunque anche in essi una percezione della realtà interna-esterna, insieme ad una organizzazione della percezione in configurazioni che, anche se possono modificarsi, durano nel tempo. Ogni animale dunque è cosciente nel senso di avere una conoscenza organizzata dell’oggetto, di avere una rappresentazione interna dell’oggetto, una capacità immaginativa. Ma questa coscienza “semplice” non è “autocoscienza”, nel senso cioè più progredito di coscienza di sé, di avere una coscienza e una organizzazione della conoscenza, di “sapere di sapere”. Nel bambino questa coscienza delle rappresentazioni di sé, questa autocoscienza, si sviluppa gradatamente, prima con la capacità di riconoscere il proprio corpo, l’immagine di Sé (dopo il primo anno di vita); poi con l’autoconsapevolezza delle proprie emozioni e delle proprie intenzioni nei confronti dell’altro; infine con la capacità di rappresentarsi e quindi di riconoscere se stesso come soggetto attivo di fantasie, di pensieri, di capacità simbolica, di mondo interno proprio e caratteristico (verso il terzo-quarto anno di vita). Da tutto ciò, il dato interessante che si può rilevare è che in ogni caso non ci troviamo di fronte a strutture della mente come entità ontologiche, bensì di fronte a funzioni dello psichismo, o (nell’accezione più ampia che stiamo imparando ad usare) dell’intero organismo. Come vedremo, queste funzioni non potrebbero operare indipendentemente l’una dall’altra, perciò è nel loro insieme che rappresentano appunto il funzionamento complessivo dell’organismo. Ancora Jervis a tal proposito ci dice: <<Occorre notare che si affaccia qui una concezione critica moderna dell’autocoscienza come funzione o come operazione mentale, che contraddice l’ipotesi più tradizionale e intuitiva secondo cui l’autocoscienza sarebbe un dato primario.>> (p.  ) Un secondo elemento che emerge da queste riflessioni è che la coscienza di sé è una “complessificazione” della funzione già esistente della coscienza, di una funzione primaria di base. Generalizzando possiamo dire che tutte le funzioni più articolate esistevano già sin dall’inizio come funzioni originarie: e che quindi nessuna funzione interviene completamente ex novo da un determinato momento in poi della vita. La funzione dell’autocoscienza non irrompe improvvisamente, all’età di quattro anni, in un bambino fino a quel momento incapace di sentire, privo di coscienza e di rappresentazioni interne; è piuttosto la funzione della coscienza che, presente sin dall’inizio, seppure in forma semplice, va man mano ramificandosi e complessificandosi comprendendo nel suo campo d’azione anche il se stesso, la propria capacità di percepire e rappresentare, divenendo così, nel momento di maggiore complessificazione, una funzione di autocoscienza.

La concezione Funzionale del Sé

Come abbiamo già accennato, l’insieme dei vissuti e delle esperienze di Sé, l’accezione esperienziale del termine “Sé”, non possono essere considerati come la percezione di un Sé reale sottostante, come il diretto rispecchiamento di una struttura “reificata”. Sono piuttosto una delle funzioni che compongono il complesso organizzativo dello psicocorporeo. E’ possibile allora andare oltre la concezione semplicemente esperienziale del Sé, (visto che le rappresentazioni di Sé altro non sono che funzioni di un qualcosa di più ampio e complesso) senza cadere però nell’errore epistemologico di una concezione strutturale e ontologica del Sé? Come spiegare il funzionamento dell’organismo infantile, alla luce delle nuove scoperte, dell’esperienza e dei dati clinici della psicoterapia corporea, volendo superare le carenze e le limitazioni di una concezione adultomorfa dell’Io che, in quanto tale, non può essere presente nella vita infantile sin dall’inizio? E d’altra parte le funzioni stesse dell’Io,(al di là delle perplessità su di una sua concezione pulsionale) non sono anch’esse in fondo solo alcune delle funzioni che possono essere rilevate all’interno di un complesso più ampio? Jervis, in relazione alla vita psichica della prima infanzia, ammette che <<qui l’immagine di un Sé oggettivo o strutturale cade in qualche modo a proposito, come correzione di un certo “adultocentrismo” della metapsicologia freudiana.>> (p 17) Ma finisce per considerare questo Sé solo come un primo abbozzo di un qualcosa che interverrà successivamente nella vita sotto altre forme e altri nomi. <<Così forse è inevitabile che nella psicologia e nella psicoanalisi della prima infanzia si trovi utile usare questo concetto …in due accezioni molto diverse ma non prive ambedue di qualche giustificazione. In primo luogo, cioè, come “sé neonatale” o come “sé psicofisiologico primario”..in secondo luogo, come “sé emergente”, cioè come sinonimo, un pò maldestro anch’esso, di “autocoscienza emergente”>>. (p 31). Riguardo alla prima delle due accezioni, dobbiamo obbiettare che non avrebbe senso accettare un concetto di Sé non solo esperienziale unicamente per la carenza di costrutti in grado di spiegare il funzionamento della prima infanzia, e (cosa ancora più incomprensibile) relegare questo concetto solo alla prima infanzia. Questo Sé neonatale, infatti, perché dovrebbe poi scomparire, o diventare qualcosa di completamente diverso, con tutt’altro nome? Possiamo accettare che le perplessità di molti autori ad accogliere una concezione del Sé che vada al di là dell’esperienziale sia per il timore di cadere in una concezione metafisica strutturale. Ma da tutto il discorso sin qui portato può risultare ben chiaro come una concezione Funzionale non solo eviti questo pericolo per il concetto del Sé, ma lo eviti anche per una serie di altri costrutti che corrono il medesimo rischio. Una concezione Funzionale del Sé ci permette di allargare il campo interpretativo del funzionamento del soggetto, prendendo in considerazione sia funzioni psichiche che funzioni corporee, o meglio funzioni, semplicemente, analizzabili da uno o l’altro versante di una medesima e inscindibile unità psicocorporea. Il Sé allora sarebbe qualcosa che esiste nel senso di insieme di funzioni; un insieme organico e strutturato (o meglio ancora organizzato) di disposizioni e di funzioni che determinano l’identità della persona, <<quel tipo di coscienza di sè e quel tipo di “stile” comportamentale che caratterizzano un dato essere umano.>> (Jervis p.3) Il Sé inteso come insieme di funzioni ci permette di comprendere, poi, molto più chiaramente come possa esistere un consistente o meno “senso di Sé”; cosa significhi che il nucleo profondo del Sé possa essere fragile ed eroso; come una perdita (sempre parziale) dell’integrazione primaria possa portare ad una dispersione d’identità (Erikson     ) o ad una serie di cattive immagini di sé; come, in definitiva alcune funzioni possano alterarsi all’interno del Sé complessivo. Il Sé può essere definito funzionalmente, dunque, come l’organizzazione che permette all’organismo di creare schemi e rappresentazioni su tutti i piani psicocorporei, come l’insieme di questi piani e dei processi che li caratterizzano, come l’insieme delle leggi che regolano l’interazione tra tutti i processi e i piani psicocorporei dell’organismo visto nella sua interezza e globalità. Questa “globalità” non è una concezione olistica vaga e indeterminata, ma al contrario allarga il campo e l’ottica in una visione multidimensionale molto più dettagliata e particolareggiata. Questo permette di superare la “bidimensionalità” piatta della bipartizione conscio-inconscio, in quanto in ciascuna delle funzioni dell’intero campo psicocorporeo può essere presente o allontanato (rimosso) un determinato processo percettivo, elaborativo o espressivo. Pur allargandosi la cornice complessiva in una visione a tutto tondo, il pericolo di vaghezza e di genericità (con il rischio di precipitare in una concezione metafisica del Sé) è scongiurato dalle potenzialità di precisione che derivano dal poter prendere in esame specifiche aree funzionali, sottopiani funzionali, sin alla più determinata, singola funzione (quale può essere il metabolismo dei liquidi in una cellula, la singola emozione, la funzione respiratoria, o quella cardiocircolatoria, o quella immaginativa progettuale). Tutto ciò corrisponde, nel moderno paradigma della complessità, ad una visione d’insieme, complessiva, ma con la possibilità di scendere volta per volta in un singolo determinato piano. L’indagine e la ricerca possono allora essere condotte tutte all’interno di quel piano, purché ci si sposti, di volta in volta, coscientemente e correttamente nell’ottica visuale adatta a quel piano, e purché non si perda mai di vista l’insieme complessivo che, solo, può dare un senso corretto all’indagine particolarizzata. Dunque una visione Funzionale del Sé esprime un funzionamento globale nel quale tutti i piani dello psicocorporeo concorrono allo stesso livello, in una concezione che non è più piramidale ma piuttosto circolare, o ancor meglio sferica. Tutti i piani e i processi funzionali costituiscono pariteticamente il Sé, attraverso i processi che vi si svolgono, la loro organizzazione, la loro interazione.

PARLARE CON I VERBI ALLA TERZA PERSONA

Una annotazione simpatica sul tema (non certo casuale) è che anche nel linguaggio infantile usare i verbi alla “terza persona” indica tale globalità, una globalità di cui evidentemente nell’infanzia c’è un’esperienza né mediata né alterata. E non è un caso che, parlando con i bambini, spesso gli adulti usino anch’essi la terza persona.

Esaminiamo le due frasi:

“Papà ti vuole tanto bene”

“Io ti voglio tanto bene”

Nella prima c’è più un senso di totalità, in cui è coinvolto tutto il Sé. Usando la terza persona i dati sono come più oggettivi; non è solo quello che io ritengo o penso. Nella seconda frase, quella con l’Io, ci sono in misura maggiore le “mie personali” impressioni. Sono piuttosto “io” che ritengo di volere bene a mio figlio, ma non è detto che questo sia oggettivamente e pienamente evidente, al di là delle mie intenzioni. Il Sé invece va al di là di quello che io penso di essere. D’altro canto è ben noto che la persona non coincide certo con quello che ritiene di essere, con la rappresentazione di sé; molto spesso quello che esprime non coincide con quello che pensa di esprimere. L’Io (o naturalmente il Tu) sembra riferirsi piuttosto a un numero limitato di funzioni: è relativo alla autoconsapevolezza e all’intenzionale.

“Viola non deve aver paura”

“Tu non devi aver paura”

Anche parlando al bambino di ciò che riguarda lui è evidente la differenza di sfumature tra le due frasi. Con la prima si esprieme che non c’è motivo alcuno, oggettivamente, perchè Viola debba provar paura, E’ tutto il Sé di Viola che nella sua complessità e globalità non si lascia prendere da false interpretazioni della situazione esterna reale. Nella frase con il Tu è indicata invece una responsabilità della bambina a non lasciarsi vincere dalla paura, a resistere ad una situazione esterna che potrebbe forse anche giustificarla, a fare uno sforzo intenzionale e di volontà cosciente. Terminiamo con quest’ultimo esempio:

“Andrea è un bambino buono”

“Tu sei un bambino buono”

Nella prima frase il dato è esperibile da tutti e due i soggetti del dialogo, al di là delle sensazioni del genitore che potrebbe non essere d’accordo, ma che tutto sommato deve ammettere che, con tutto sé stesso, oggettivamente, e anche al di là anche delle volontà del bambino, Andrea risulta buono. Potremmo dire che su più piani funzionali, nonostante l’incongruenza che si potrebbe avere tra intenzione ed espressione, quello che emerge è condivisibile da tutti gli osservatori: ed è una estrinsecazione di sentimenti buoni, manifestata contemporaneamente dal tipo di movimento, dal tono di voce, dalle espressioni del viso e del corpo, dalle frasi, dalle azioni di Andrea. Nella seconda espressione, invece, è più presente una valutazione personale del genitore, un suo giudizio, un valore che è piuttosto quello che vede chi pronuncia la frase, forse contrariamente alle apparenze, o meglio alle manifestazioni psicocorporee prevalenti del bambino. Inoltre in questo caso Andrea si sforza di essere buono, intenzionalmente cerca di esserlo, e, anche se questa sua funzione particolare è colta dal genitore, non è detto che sulla maggioranza degli altri piani del Sé questo elemento compaia chiaramente. E’ difficile che si dica: “Andrea pensa di essere buono”, mentre si dirà più eloquentemente: “Tu pensi di esssere buono, ma Andrea in realtà (leggi su tutti gli altri piani del Sé) è cattivo”. E’ infine estremamente interessante notare come la terza persona venga usata anche in terapia in particolari condizioni regressive, naturalmente laddove col paziente si usi correntemente il Tu. Non è infatti al “lei” che qui si fa riferimento, ma alla terza persona usata con il nome del paziente. 

“Come si doveva sentire Anna in quest’atmosfera che non le permetteva quasi mai un’espressione di tenerezza?”

“Ornella ce la può fare ora ad esprimere la sua forza calma, a far uscire all’esterno la sua forza, invece di comprimerla all’interno e trattenerla”.

“Forse Patrizia può finalmente sentire tenerezza per questa bambina piccola che doveva ingoiare in silenzio, e cominciare a prendersela un pochino in braccio”.

In tutte queste espressioni non c’è mai la chiamata in causa della sola volontà della paziente, ma dell’intera organizzazione Funzionale, dell'”oggettivazione” delle varie funzioni, compresi i movimenti profondi, i ricordi arcaici, le emozioni, lo stato fisico sensoriale e percettivo.

INTEGRAZIONE ORIGINARIA DEL SE’

Se una concezione Funzionale del Sé è l’insieme di tutti i piani e processi funzionali, delle leggi che ne regolano i funzionamenti e le interazioni, anche nel periodo neonatale (nel quale alcune funzioni di controllo non si sono ancora complessificate al punto da divenire controllo autocosciente), allora, perché possa sopravvivere, questo Sé non può che essere integrato sin dall’origine. D’altra parte, nel quadro di acquisizioni scientifiche che siamo andati tracciando, acquista più credito il concetto di un SE’ INTEGRATO, proprio in quanto è l’insieme di tutte le funzioni sui vari piani psicocorporei, rispetto all’idea di un Io che, essendo costituito solo da alcune particolari funzioni, controlla poi “dall’alto” l’intero funzionamento dell’organismo. Lo studio delle capacità del neonato conferma questo tipo di ipotesi. Valga per tutti l’esperimento di Meltzoff e Borton (1979) ripreso per la sua signignificatività da Stern (1985). A bambini di tre settimane di vita, bendati, venivano dati da succhiare o un succhiotto liscio oppure un altro con delle protuberanze. Dopo di che gli venivano tolte le bende e gli fatti vedere tutti e due, uno accanto all’altro. I bambini, dopo un breve confronto visivo, guardavano più a lungo quello che avevano succhiato, mostrando così di riconoscerlo e di saper già associare direttamente l’immagine con la sensazione tattile, senza passare prima per la costruzione di uno schema tattile, la costruzione di uno schema visivo, l’instaurare una relazione tra i due schemi, ed arrivare ad uno schema tattile-visivo coordinato (Piaget, 1952). Il bambino prima del mese di vita, dunque, possiede già la capacità di “tradurre” una percezione ricevuta su di un piano del Sé (tattile) ad un altro piano del Sé (visivo) non stimolato; e questo è possibile solo se c’è già un’interrelazione stretta tra i piani, non generata dall’aver successivamente messo insieme esperienze su di un piano ed esperienze sull’altro. Un’altra riprova della condizione di integrazione originaria del Sé risiede nel fatto che non si mai riscontrate nel neonato incongruenze e contraddizioni tra funzioni differenti, ma che queste si formano solo successivamente. Anzi possiamo notare che, ad esempio, in una condizione di richiesta di latte, o di rifiuto arrabbiato, o di dolore e dispiacere, il modo di piangere, i movimenti, l’espressione del viso, la condizione fisiologica (dal respiro al battito cardiaco), l’emozione, e probabilmente le immagini, sono tutte funzioni congruenti tra di loro: esprimono il medesimo stato, sia all’esterno che all’interno. Se un oggetto interessa intensamente ad un neonato (poniamo di 6 mesi di vita), ad esempio un “sonaglino colorato”, noi osserveremo che tutte le funzioni del suo organismo si “muoveranno” nella medesima direzione, ad esprimere un insieme coordinato ed integrato. Il bambino sgrana gli occhi per guardare bene il sonaglino, sorride, esprime approvazione e gioia nell’espressione del viso e con un agitare eccitato delle braccine, alzandosi e abbassandosi a saltelli sul suo seggiolone, protendendo il corpo e la mano come a prenderlo. Accompagna i movimenti e le espressioni con suoni espressivi ed adeguati di interesse e di richiesta, con gridolini e schiocchi, con vocali ripetute con forza a mò di richiesta. E’ evidente che egli prova un intenso desiderio e che nello stesso tempo lo anticipa con l’immaginazione, “pregustando” il piacere che il sonaglino gli può dare nello scuoterlo, nell’ammirarne i colori e magari nel saggiarne con la bocca la liscia rotondità. Al contempo anche gli apparati fisiologici funzionano in sintonia con movimenti ed emozioni: il suo sistema neurovegetativo è in leggera simpaticotonia (leggera perché vi è solo una piacevole tranquilla eccitazione e non pericolo); il cuore batte un pò più velocemente per l’emozione, ma moderatamente; il respiro è leggermente accelerato, ma ancora basso e diaframmatico perché non c’è motivo di allarme (non si può quella alcuna confusione, così frequente negli adulti, tra eccitazione ed agitazione). Il bambino è anche consapevole che il sonaglino gli piace e che lo vuole, ricorda bene che gli era già piaciuto (è superfluo dire che lo riconosce perfettamente), immagina che gli darà ancora piacere nell’averlo tra le mani (anche se non prevede tutto quello che farà). Il valore positivo che gli aveva attribuito si rinforza (e si rinforzerà ulteriormente se il gioco continuerà a trasmettergli sensazioni piacevoli e a stimolare la sua curiosità) e il sonaglino rappresenterà sempre più un simbolo del divertimento giocoso, per i colori e il buffo rumore che si intensifica tutte le volte che le manine lo scuotono. In termini funzionali tutto ciò rappresenta un evidente segno di congruenza tra le varie funzioni del Sé: emozioni, movimenti, espressioni, sistemi fisologici, ricordi, immaginazione e prefigurazione, simbolico, attenzione cosciente, presenza. Una volta ipotizzata una tale condizione di congruenza originaria nel bambino, dobbiamo alla luce di questo assunto rivedere anche il concetto di sintomo nella prima infanzia. Non si può parlare, in relazione agli stati di disagio del neonato, di sintomi nel senso classico del termine, cioè di disturbi che sono avvertiti come qualcosa di estraneo, perché per essere sensazioni estranee dovrebbero già essersi slegati dagli altri piani del Sé. Per descrivere gli stati di sofferenza, allora, abbiamo introdotto il concetto di sintomatologia Funzionale originaria: cioè di una modalità di funzionamento che tiene conto della condizione di integrazione originaria: i vari processi psicocorporei subiscono sì un’alterazione del loro funzionamento abituale, ma si modificano tutti nella medesima direzione, ancora tutti integrati tra di loro. Nell’arrivare a comprendere il funzionamento dei processi del Sé (come le funzioni fossero congruenti tra di loro, e come intervenissero successivamente scissioni e alterazioni), è stato fondamentale un tipo di studio che spaziasse su tutti i piani della persona, non solo quelli psichici ma anche quelli corporei, guardandoli in contemporanea, nel loro modificarsi gli uni relativamente agli altri, e nell’influenzarsi reciproco. Nel vederne le modalità, ritorniamo all’uso di modelli grafici per rappresentare l’unità psiche-corpo; modelli che, nonostante la inevitabile semplificazione, hanno il pregio di trasmetterci un’immediata e più comprensibile immagine del modello teorico. Un modello circolare interattivo dell’unità psicocorporea può essere rappresentato come in figura. Le frecce esterne anch’esse a forma circolare stanno a significare che sia durante il funzionamento che durante il periodo di sviluppo non si possono individuare direzioni privilegiate né posizioni gerarchiche di subordinazione di un aspetto nei confronti dell’altro. Funzionamento e sviluppo, invece, procedono da tutte le direzioni verso tutte le direzioni. Un modo di rappresentare la condizione di “integrazione originaria” potrebbe essere il seguente. Le frecce indicano in questo caso le direzioni verso cui avviene lo sviluppo del Sé, che a volte può sfociare successivamente in possibili condizioni di scissione,  per l’impatto del bambino con l’ambiente esterno non accogliente.

NASCITA E SVILUPPO DEL SE’

Quando parliamo di “nascita del Sé”, il problema da affrontare non consiste nel datare la nascita della vita, o dello psichismo del bambino, in senso morale o teologico; si tratta invece di capire in termini funzionali quando realmente possiamo parlare dell’esistenza di una prima ma completa organizzazione dei vari processi funzionali. Finché la ricerca sulla vita intrauterina non ci darà ulteriori dati, quello che noi possiamo affermare con certezza oggi è che, sebbene siano presenti con evidenza molteplici funzioni nei vari stadi di sviluppo del feto, un’organizzazione Funzionale in piena regola (e a tutti i livelli) è presente sicuramente dopo la nascita. Nella vita intrauterina, d’altra parte, tale organizzazione non risulta indispensabile poiché all’embrione è richiesto di fare ben poco di realmente attivo. Non è dal suo agire che dipende la sua sopravvivenza: il feto si limita ad assorbire quello che gli giunge dai vari canali aperti verso di lui, a elaborare processi biochimici, a crescere. Neanche i suoi “movimenti” più esterni (i calcetti, i piccoli spostamenti) hanno in fondo l’obbiettivo di provocare risposte precise da parte della madre. Dopo la nascita invece la sopravvivenza del neonato è continuamente legata alla sua capacità di richiamare l’attenzione, di farsi capire, muoversi nel modo giusto, scegliere le sequenze di comportamento adatte. Ciò non vuol dire che la vita intrauterina non sia di estremo interesse per la comprensione dei meccanismi precoci di regolazione e di funzionamento psicocorporeo; vuol dire solo che dobbiamo acquisire maggiori conoscenze su di un periodo che è di importanza notevole per la vita umana (ma certamente non determinante, come pretenderebbero certe recenti formulazioni di sapore esageratamente deterministico), dal momento che la ricerca su di esso è ancora molto da sviluppare. Esiste, ad esempio, una intera branca della teoria clinica ad impostazione Funzionale, che si sta occupando del rapporto madre-bambino proprio durante il periodo della gravidanza, e più in generale del rapporto bambino-ambiente (anche il padre e altre figure presenti significativamente nella vita del bambino) in epoca perinatale. Questa è l’unica occasione nella vita nella quale due Sè, due organizzazioni funzionali, si trovano in un contatto così stretto e profondo per un lungo periodo. I risultati di questi studi sono di estremo interesse, ma per la ricchezza dei dati e l’ampiezza dell’argomento non possiamo che rimandare ad altri scritti la loro analisi. Qui ci limiteremo allo studio dello sviluppo del Sé dopo la nascita. Il neonato organizza la propria relazione con l’ambiente attraverso l’utilizzazione di tutte le funzioni del Sé. Egli si costruisce un “modello” del mondo attraverso il quale poter intervenire. Impara a riconoscere quegli elementi che nelle varie esperienze si mantengono costanti, quelli che Stern (    ) definisce i primi “involucri di esperienze”, che possono riguardare l’allattamento, le modalità caratteristiche con cui la madre lo cambia o gli fa il bagnetto, le variazioni di atteggiamenti che preludono ad una variazione di umore o ad una tempesta di rabbia. Il neonato riesce a cogliere le parti invariabili dell’esperienza, anche laddove l’invariante è il “cambiamento” (ad esempio il disciogliersi della tensione muscolare di allarme quando egli viene preso e “tenuto” bene in braccio). Questi primi “insiemi” che uniscono parti di varie esperienze in un tutt’uno amalgamato, divengono più in là “involucri narrativi”: cioè vicende che hanno un senso di sviluppo e di continuità, delle quali il bambino arriva a percepirsi come l’elemento invariante, il protagonista che le può comunicare e raccontare. A questa fase dello sviluppo corrisponde la nascita dell’autocoscienza, della coscienza della continuità, laddove prima c’era solo l’organizzazione ad avere continuità. Ma cosa c’è all’interno di questi involucri di esperienza? di cosa sono costituiti? qual’è il modo attraverso cui si arriva all’apprendimento delle invarianze e alla loro costruzione? Queste domande ci conducono nuovamente alla teoria delle funzioni del Sé. L’apprendimento sarebbe impossibile se non ci fosse un’integrazione iniziale tra diversi livelli funzionali, i quali, interagendo insieme, determinano quelle che sono le costanti, emotive-posturali-fisiologiche-ideative, di una determinata esperienza (sia le costanti interne che quelle del comportamento volto all’esterno). (Rispoli, 1991 Giuffré) In altre parole gli involucri di esperienza sono al loro interno costituiti nient’altro che da processi funzionali (ricordi, immagini, percezioni, sensazioni, movimenti degli apparati interni) legati intimamente in una determinata associazione, e con quelle caratteristiche che il neonato è riuscito ad “astrarre” dalla estrema variabilità degli eventi. L’unità molare di funzionamento (cioè la più piccola e primaria) sembra essere dunque costituita da un’intersezione di tutte le funzioni (per quanto non ancora complessificate) che si possono distinguere nel Sé, le quali si aggregano intorno ad una particolare sequenza di eventi, prendendo una particolare forma. Gli involucri di esperienze sono sempre relativi ad un cambiamento delle condizioni: dalla fame alla sazietà, ma anche dalla sazietà alla fame; dalla sicurezza alla paura e viceversa; dall’eccitazione alla calma; e così via. Il neonato, in effetti, attraverso la costruzione di invarianti apprende ad interagire sempre meglio con l’ambiente per ottenere che i cambiamenti vadano nella direzione desiderata; la stessa direzione verso cui si muovono “congruentemente” tutte le sue parti, tutti i suoi piani funzionali. Qui già possiamo intravedere l’esistenza delle gamme di funzionamento, un concetto tipico del modello Funzionale, che descrive tutte le possibili sfumature che vanno da una polarità all’altra delle dimensioni che si possono rilevare in ogni piano Funzionale: dal sentirsi tenuto al sentirsi lasciato; dalla fame alla sazietà completa; dall’attenzione spasmodica al disinteresse; dal piacere al dolore, e così via Il neonato, finché permangono le condizioni di mobilità e di integrazione, è in grado di spaziare (con le sue risposte e i suoi comportamenti) in tutte le posizioni delle varie gamme, utilizzando quele più adatte alle situazioni. Gli involucri di esperienza sono dunque, in ultima analisi, sia la capacità di “leggere” i cambiamenti da una situazione all’altra della gamma, sia la capacità, per quanto possibile, di influire sugli eventi per “realizzare” il cambiamento da una posizione ad un’altra della gamma. Sono queste due capacità che devono essere supportate ed aiutate nel bambino in un incontro con l’oggetto  che, in altra epoca e con tutt’altri linguaggi e concetti, Winnicott definiva transizionale (far comparire il seno laddove il neonato l’aveva “allucinato”). La questione oggi si sposta più sul fatto che, se ad una capacità acquisita dal neonato di “chiedere” il seno (e farlo comparire quando e dove egli lo vuole) non viene data ad un determinato momento più risposta, il suo bisogno frustrato, il suo pianto disperato, modificano l’apprendimento precedente, il precedente involucro dell’esperienza. Il senso di fame stimolante diviene dolore acuto, la tranquilla eccitante attesa diventa agitazione frenetica e disperata. Il seno giunge quando il bambino è passato per una lunga e dolorosa simpaticotonia e dopo un’intensa contrazione muscolare, quando è già stanco e il succhiare è oramai una tale fatica che non dà più lo stesso piacere: il calmarsi della fame, il senso di sazietà, si perdono e si confondono con la tempesta di altre sensazioni. E’ tutto questo insieme tempestoso che il neonato finisce per “fissare” dentro di sé, e non il semplice aver appurato che quella volta il latte tardava a venire. E tutto questo rappresenta un’alterazione dell’andamento delle sue funzioni, che, se ripetuta, a poco a poco si cronicizza sfociando in stereotipie e in riduzione della mobiltà della gamma (il bisogno di nutrirsi comincia a mescolarsi all’ansia e al dolore). E attraverso queste prime alterazioni, in un funzionamento a catena, si formano i successivi apprendimenti. Possiamo vedere qui mostrato uno degli aspetti più significativi della cosiddetta memoria corporea. Le posture, i movimenti, l’attivarsi degli apparati interni fisiologici si legano a determinate esperienze, assumono aspetti ripetitivi e perciò rappresentano una base particolare attraverso la quale il bambino procede nella conoscenza del mondo. (Rotschild 1988, Bull 1945)

PROCESSI E PIANI PSICOCORPOREI

Se guardiamo ai vari piani psicocorporei del Sé, alle varie funzioni che lo compongono, potremmo cercarne una rappresentazione grafica che ci aiuti a capire non soltanto i processi di sviluppo quanto e soprattutto le alterazioni e gli squilibri che possono intervenire. (Rispoli Andriello 1988) Una rappresentazione Funzionale del Sé, efficace e già da anni sperimentata ed utilizzata, è quella di una “sfera” complessiva (nel piano è un cerchio) che contorna a sua volta quattro “sfere” le quali rappresentano quattro grandi raggruppamenti di funzioni: L’EMOTIVO, IL POSTURALE-MUSCOLARE, IL FISIOLOGICO, IL COGNITIVO-SIMBOLICO. La necessità di suddividere in quattro grandi aree tutti i processi funzionali deriva da una duplice motivazione: da una parte la chiarezza che si ottiene schematizzando il campo con due assi perpendicolari che dividono il Sé in differenti zone; dall’altra l’osservazione che spesso i processi funzionali tendono a scindersi più facilmente proprio secondo questi quattro raggruppamenti. Ciascuna area del Sé molto spesso può essere citata come insieme alterato di funzioni nella sua generalità. Possono avere un senso, cioè, nella descrittiva diagnostica, espressioni del tipo: è un soggetto con l’emotivo atrofizzato; una persona in cui il fisiologico è completamente alterato, un individuo ipercognitivo, e così via. All’inizio della vita possiamo parlare di un nucleo originario del Sé, rappresentato dalla figura, dove tutte le funzioni sono strettamente interrelate e integrate tra di loro. Gli scambi con l’esterno, rappresentati dalle frecce entranti e uscenti, sono intensi ed aperti in tutte le aree funzionali, già visibili seppure in abbozzo. Il nucleo man mano si espande e si sviluppa, mostrando in modo più sensibile la differenziazione in aree funzionali. Il punto di vista Funzionale permette di guardare come “dall’alto” al funzionamento di tutti i processi psicocorporei dell’individuo (ma anche dei nuclei familiari, dei gruppi e delle strutture istituzionali). All’interno di questo complesso sistema sono stati individuati quattro raggruppamenti principali dei vari processi psicocorporei dell’organismo, quattro grandi aree in cui solitamente questi finiscono per differenziarsi e suddividersi.

La prima di queste aree, l’EMOTIVO, rappresenta la particolare coloritura con cui l’individuo, sin dall’inizio della vita, percepisce il mondo esterno, che dunque non è per lui né neutro né piattamente equivalente. All’interno della sfera delle emozioni possiamo distinguere i sentimenti positivi e negativi, quelli nei propri confronti ed il senso di sé, l’umore di base, e infine l’atmosfera generale del proprio mondo affettivo.

Il FISIOLOGICO racchiude al suo interno numerosi sottopiani poichè è costituito da tutti i sistemi ed apparati dell’organismo, che ne assicurano il funzionamento, sino ai meccanismi più piccoli del microbiologico, dell’osmosi e del funzionamento cellulare. Ne fanno parte, dunque, l’apparato respiratorio, il sistema cardiocircolatorio, il neurovegetativo, l’aparato immunologico, il quadro neuroendocrinologico con i suoi mediatori chimici e i neurotrasmettitori, il sistema delle percezioni e delle sensazioni.

Il POSTURALE-MUSCOLARE invece è un’area più tradizionalmente studiata dalla psicoterapia corporea e in genere più conosciuta come sede del linguaggio del corpo, con i suoi sottopiani delle posture, dei movimenti (grossi e sottili, lenti e veloci, forti e deboli), dei gesti. Ne fanno comunque parte il tono muscolare di base, le caratteristiche di funzionamento dei vari distretti corporei, la struttura e la forma che il corpo è andato man mano acquistando nel tempo.

Il COGNITIVO-SIMBOLICO racchiude al suo interno una serie di processi funzionali più conosciuti nell’ambito delle terapie verbali, ma che comunque non vanno confusi genericamente col “mentale”, ma vanno guardati nelle loro finalità e modalità specifiche. Vi distinguiamo perciò un piano dei ricordi, i processi della consapevolezza e della razionalità, l’insieme delle fantasie che irrompono all’interno della coscienza, i processi immaginativi che l’individuo può organizzare e indirizzare verso un progetto (per prevedere l’esito delle sue azioni e delle sue parole, aggiustandole e modificandole col pensiero sino a trovare quelle più adatte allo scopo che ci si è prefissi). Infine non possiamo dimenticare il sottopiano del simbolico, inteso come insieme di valori profondi e di attributi che ciascuno assegna alle rappresentazioni umane e sociali più significative, quali la nascita, la vita, il maschile e il femminile, l’infanzia, la maturità, la vechiaia, il lavoro, il gioco, la sessualità, e così via. Questo insieme di valori si esprimono non solo nei sogni, ma continuamente, impregnando la maniera di sentire e percepire della persona, rappresentati simbolicamente da determinati “oggetti” o condizioni di vita. Tutte le funzioni sono presenti sin dall’inizio. Lo sviluppo procede per continue complessificazioni e per continue ibridazioni. Le funzioni esistenti vanno infatti assumendo nuove innumerevoli sfumature a contatto con la realtà, in occasione di nuove esperienze. Per ibridazione possiamo intendere il nascere di una nuova sfumatura dall’incontro di una emozione primaria, di base, (o di qualunque altra funzione del Sé di base) con una situazione esperienziale nuova. La gioia di vivere, ad esempio, può differenziarsi in allegria, in entusiasmo, in contentezza, in passione. L’emozione basilare di rifiuto può divenire odio, disprezzo, distacco, insofferenza, disistima, ostilità, rancore, ecc. Ma ciò non significa che il bambino, sin dall’inizio, non sia in grado di esprimere un forte sentimento negativo, o di sperimentare un intensa emozione di gioia. Esempi analoghi possono essere fatti per la consapevolezza, per il pensiero logico, per l’immaginazione, o per il tono muscolare di base. 

LEGGI FUNZIONALI E ALTERAZIONI DEL SE’

Superando le imprecisioni e le approssimazioni delle vecchie “tipologie” (da quelle basate sullo sviluppo libidico a quelle legate alla struttura del carattere), l’approccio Funzionale permette di analizzare globalmente le vicende intervenute su tutti i piani e sottopiani del Sé e sulle loro interazioni, per ciascuna concreta singola situazione. Si tratta di analizzare le alterazioni complessive del Sé, senza rimanere nel vago e allo stesso tempo senza perdere una visione d’insieme, di tipo olistico. Il che è possibile se si prendono in considerazione le modificazioni che possono intervenire per ogni processo Funzionale, per ogni sottopiano, per ogni area; ma soprattutto le leggi di funzionamento che ne regolano e ne determinano le interconnessioni. Si possono individuare essenzialmente tre tipi differenti di alterazioni.

1. Le scissioni. Si presentano con maggiore frequenza tra le grandi aree, le quali sono state così suddivise proprio perché si caratterizzano per una forte tendenza a separarsi tra di loro. Molto comuni sono però anche le scissioni all’interno di una stessa area, e anche all’interno di un medesimo sottopiano.

A causa delle scissioni ciò che accade su di un piano non produce eventi congruenti (che procedono nella medesima direzione) sugli altri piani. Si possono ad esempio avere emozioni non presenti sul livello della razionalità e della consapevolezza, movimenti che esprimono sentimenti diversi da quelli che la persona percepisce, stati fisiologici di paura senza ragioni esterne, posture che contraddicono il tono di voce, toni di voce che contraddicono il contenuto delle parole, e così via. Alcuni processi funzionali finiscono per agire sganciati dal resto del Sé, in una sorta di corto ciruito che si richiude su se stesso. Naturalmente nessun piano può separarsi totalmente dagli altri, ma le connessioni rimarranno soltanto a livello molto profondo, in quel nucleo originario del Sé soffocato dalle formazioni coattive e stereotipate del falso Sé. Di conseguenza, le relazioni tra i vari piani, che si muovono su livelli di superficie, sono non dirette, distorte, contraddittorie.

2. Ipertrofie e ipotrofie. Una funzione può svilupparsi alla stessa maniera delle altre, armonicamente nella personalità, oppure può subire un’alterazione nel suo sviluppo evolutivo: divenendo ipertrofica, esageratamente presente ed espansa, o al contrario restare ipotrofica, poco sviluppata, quasi assente nel quadro generale del Sé. Non è difficile pensare, come esempi, a persone che hanno un’emotività troppo sviluppata, oppure un razionale ipertrofico, una scarsità di ricordi, un’assenza di movimenti forti o di movimenti teneri, difficoltà nell’ideazione o nell’immaginazione. Queste disarmonie si traducono in una tendenza ad accentuare nella vita e nelle relazioni tutti gli aspetti legati alle funzioni ipertrofiche, che così continuano ad essere ulteriormente stimolate, in un crescendo a spirale. Per realizzare modificazioni reali in terapia, non si deve assolutamente insistere sui lati già troppo sviluppati, altrimenti il rischio che si corre è quello di accentuare le disarmonie invece di andare nella direzione di una riarmonizzazione. Prendiamo come esempio le recenti preoccupazioni sul fatto che essere spettatore passivo della televisione possa danneggiare lo sviluppo equilibrato del bambino. Un’analisi di tipo Funzionale permette di comprendere come la televisione possa risultare dannosa non per tutti, ma per quei bambini che abbiano già troppo sviluppato il piano dell’immaginario, dell’irreale, del fantastico, a discapito della capacità di progettare e di agire in prima persona.

3. Sclerotizzazioni. I processi funzionali psicocorporei possono subire un’alterazione nel modo stesso di funzionamento. Quando solo pochi tipi di movimento diventano possibili, un’emozione si “fissa”, un’idea assume il carattere della ripetitività sino a divenire ossessiva, possiamo dire che quel piano Funzionale o quell’area ha subito un irrigidimento, ha perso di fluidità e di elasticità. Le “gamme” (che l’organismo ha a disposizione) di risposte, di strategie, di capacità, vengono ad essere più o meno limitate su tutte le aree del Sé: dall’ideazione ai movimenti, alle percezioni, alle emozioni, sino ai sottili meccanismi degli apparati fisiologici interni, dei delicati funzionamenti microcellulari, chimici, elettrici. Non è certo raro imbattersi in situazioni di limitata mobilità: fissità di emozioni o di espressioni, movimenti stereotipati, fantasie coattive, soglie percettive e tono muscolare alterati, povertà di idee e di creatività. Queste stereotipie, queste limitazioni delle varie gamme di risposte possibili nei confronti di eventi sia esterni che interni, sono fonte di grosse difficoltà di vita, perché non si hanno più a disposizione modalità adatte per interagire efficacemente con l’ambiente ma ripetitive e automatiche, che costringono ai medesimi “errori”, anche se li si conosce e si cerchi con la volontà di evitarli. Sotto l’impatto delle condizioni avverse e frustranti dell’ambiente, cominciano a profilarsi le prime scissioni e le prime disarmonie nell’equilibrio del Sé, come mostra la figura 2,12. Compaiono anche i primi rudimenti di un modo di rapportarsi all’esterno irrigidito, non in contatto profondo con tutte le parti del Sé: il falso Sé. Una condizione successiva è riportata in figura 2,13. Le scissioni sono rappresentate dalla separazione delle sfere relative alle varie aree (o piani funzionali); l’ipertrofia o l’ipotrofia dalla grandezza dei cerchi; e la sclerotizzazione delle funzioni dall’ispessimento delle linee. Con queste modalità di rappresentazione sono possibili diagrammi molto dettagliati sulla situazione attuale dei pazienti, e sugli interventi da realizzare nel corso della terapia, come vero e proprio progetto terapeutico. L’approccio Funzionale permette, attraverso una visione d’insieme e lo studio delle leggi che regolano l’interazione e la trasformazione dei processi psicocorporei, di comprendere perchè e come l’individuo si ammala, e quali strade prenda (di tipo più psichico o più somatico) questo ammalarsi. Esso riprende una scuola di studi e di pensieri che ha radici molto profonde (soprattutto evoluzioniste) nella storia della psicologia, e che si è sviluppata principalmente nel campo filosofico e pedagogico, mentre è rimasta inespressa nel campo psicologico-clinico, anche per un certo viraggio verso una tendenza esageratamente pragmatista delle scuole di pensiero americane all’interno delle quali aveva trovato origine il funzionalismo. La matrice del pensiero funzionalista possiede dei nuclei e dei fermenti di estremo interesse anche per la psicoterapia, e si rivela di sorprendente attualità se liberata da eccessivi estremismi, e sviluppata con nuove formulazioni teoriche e tecniche all’interno della psicologia clinica. Lo sviluppo del funzionalismo in questo settore non ha avuto molto spazio, né è stato mai tentato in maniera convincente prima d’oggi, anche perchè la scena della psicologia clinica e della psicoterapia è stata a lungo occupata e dominata dallo scontro di due opposti modelli interpretativi della realtà: in Europa quello derivato dal pensiero idealista, che si incarnava nella psicoanalisi freudiana; in Amerca il pragmatismo, che dava vita al behaviorismo e alla scuola sistemica di Palo Alto. Lo studio dei processi e dei funzionamenti psicocorporei (portato avanti attraverso un’ottica unitaria e complessiva), prendendo in considerazione da una parte tutto ciò che avveniva, a più livelli, all’interno dell’organismo, della black box (come elaborazione ma anche come organizzazione), ed abbandonando la concezione di un pensiero che domina e controlla tutto, ha aperto la strada ad una terza posizione. La prospetiva Funzionale ha sistematizzato antiche e nuove conoscenze costruendo un’ipotesi di teoria globale e complessiva del Sé, che guardi all’insieme di tutti i processi funzionali, con l’ipotesi di una loro presenza (anche se in forma più rudimentale) sin dall’inizio della vita, e di una loro profonda integrazione originaria. Ciò permette di affrontare la prospettiva e il paradigma della complessità senza restare paralizzati, senza dover rinunciare all’operatività, pur in presenza di un numero così elevato di elementi e di variabili. Si tratta di avere una cornice unitaria e complessiva che guarda contemporaneamente alle quattro grandi aree in cui possono essere raggruppati tutti i processi funzionali psicocorporei, e di modificare consapevolmente ed in modo adeguato il livello sul quale di volta in volta si sta operando, l’angolazione focale da cui si possono osservare i singoli sottopiani delle aree del Sé, senza perdere di vista (in una concezione multidimensionale e multifocale) l’insieme globale ed unitario. E’ la relazione terapeutica stessa ad essere vista e studiata attraverso tutti i piani nei quali essa si svolge, attraverso tutte le modalità di comunicazione che vengono messe in atto; modalità che corrispondono ai vari aspetti del la concezione Funzionale del Sé, che coinvolgono sia il Sé del paziente che quello del terapeuta. Questa visione porta al superamento delle tipologie astratte, poiché permette di leggere l’individuo concreto nelle sue varie componenti. Permette, in particolare, di guardare a ciò che si è modificato nella sua storia passata, attraverso molteplici tracce, che nell’attuale sono ben visibili; anche se non su tutte, sicuramente su molte aree del Sé. E’ così possibile accedere agli esiti delle relazioni passate, guardarle al di là dei soli ricordi o delle sole fantasie del paziente; ed intervenire quindi su queste tracce, su questi esiti, direttamente, per riuscire finalmente a modificarli. Uno dei punti di innovazione più significativi della teoria Funzionale riguarda la concezione dello sviluppo evolutivo; l’ipotesi è che tutti i distretti corporei (e non solo quelli tradizionalmente considerati, cioè la zona della bocca, degli sfinteri, la zona genitale), e che tutte le aree del Sè del bambino siano coinvolti in un “movimento” di relazione con l’ambiente, ad ogni età. Ciò comporta il superamento dell’assioma dell’esistenza di una fase di narcisismo primario, di una fase di “isolamento” del neonato. Ma comporta anche il superamento della concezione del primato di alcune zone del corpo nelle differenti fasi dello sviluppo libidico (orale, anale, genitale), in accordo con le più rcenti ricerche. Il bambino partecipa con “movimenti” e coinvolgimenti di tutte le parti del suo corpo all’interazione affettiva con l’ambiente (sia interno che esterno), così come con tutti i piani del Sé già esistenti e integrati sin dall’inizio. E’ chiaro allora che gli esiti di questi movimenti affettivi (di segno differente a seconda di come sia stato il rapporto con l’ambiente) possano rimanere incapsulati, con il loro carico di emozioni e sensazioni, estremamente intense, all’interno di qualsivoglia distretto corporeo (le gambe, la schiena, il torace), con la stessa intensità (se non superiore) di quella esistente, ad esempio, nella zona orale. Gli esiti di questi movimenti si possono trovare altresì cristallizzati all’interno di ciascuno dei piani del Sé, dove essi contribuiscono ad aggravare, in modo continuo, ma a volte sottile ed invisibile, sconnessioni esistenti, ipotrofie o ipertrofie di determinati sottopiani, sclerotizzazioni ed irrigidimenti di altri, alterazioni dell’intero equilibrio del Sé.

LEGGI FUNZIONALI DEL SE’

E’ possibile a questo punto provare ad enunciare le modalità di funzionamento del Sé riassumendole complessivamente in alcune leggi scientifiche e relativi corollari. E’ chiaro che non si tratta di “leggi” nello stesso senso strettamente causale e deterministico della scienza fisica. Purtuttavia rappresentano comunque delle ipotesi, dei tentativi, per descrivere andamenti e tendenze dei fenomeni interpretati da un modello teorico generale del Sé, e come tali permettono previsioni e verifiche sul suo funzionamento.

1) Tutte le funzioni del Sé sono tra loro interconnesse, collegate direttamente, e sono presenti sin dall’inizio nella vita dell’individuo.

2) Nessuna funzione del tutto nuova si aggiunge nel corso della vita, ma quelle già esistenti si complessificano e si specializzano arricchendosi di nuove sfumature.

3) I processi funzionali possono subire alterazioni, per l’impatto negativo con l’ambiente, di vario tipo: a) separazioni e scissioni, b) irrigidimenti, sclerotizzazioni, diminuzione di mobilità (ampiezza, modularità, mobilità), c) maggiore o minore sviluppo (ipo o ipertrofie). Tutto ciò costituisce all’esterno, nelle relazioni, il falso Sé.

4) Le funzioni tendono per queste alterazioni a separarsi, in particolare in 4 grandi aree o raggruppamenti, e ad assumere un funzionamento indipendente le une dalle altre, in cortocircuito.

5) Le sconnessioni non sono mai totali. Le funzioni rimangono comunque connesse a livelli più profondi, tramite quello che può essere chiamato “nucleo originario” o “nucleo integrato” del Sé.

6) Un processo terapeutico deve perciò far regredire ai nuclei profondi e ancora integrati del Sé. Per arrivarci bisogna utilizzare e seguire le funzioni meno scisse, alterate, sclerotizzate, dove il falso Sé è meno ispessito.

7) Cambiamenti su un singolo piano funzonale producono cambiamenti corrispondenti, rilevanti e stabili, su di un’ altra funzione del Sé solo se entrambi i piani non sono alterati (e sono quindi in diretto collegamento con il nucleo profondo integrato). Altrimenti i cambiamenti indotti di riflesso sull’altra funzione saranno minimi, non stabili e soprattutto distorti e alterati; in direzione tanto più diversa (fino ad essere addirittura di segno opposto a quelli ottenuti sul piano dove si è direttamente agito) quanto più le due funzioni sono scisse tra loro, sclerotizzate e non in collegamento diretto con il nucleo profondo.

8) E’ necessario in terapia rimettere tutte le funzioni in collegamento diretto con il nucleo intgrato (espandendolo), e intervenire quindi con tecniche terapeutiche adatte sempre su molteplici piani funzionali, agendo e provocando (in tutti) cambiamenti nella medesima direzione.

Le ricerche sulle leggi che regolano i processi funzionali hanno rivelato che raramente è possibile modificare tutti i piani della persona agendo su uno solo di questi: dipende dal grado di interconnessione residua di tale piano con il nucleo profondo del Sé, e dal grado di integrazione che quest’ultimo ancora conserva. Sarà necessario sviluppare ulteriormente le conoscenze nella direzione della prospettiva Funzionale, per poter comprendere sempre meglio quali strade siano da percorrere per ottenere una benefica regressione ai nuclei profondi, come riespandere questa parte ancora integrata del funzionamento dei soggetti, su quali piani e processi funzionali agire per poterli ricollegare, riampliare, rimobilizzare, al fine di riequilibrare l’intera configurazione Funzionale del Sé.