in “Quaderni Reichiani n. 8”, Napoli, 1976.
Questo articolo scaturisce da un primo momento di riflessione su una tra le principali attività gestite quest’anno dal Collettivo di Socio- analisi del Centro Reich: i seminari di formazione per insegnanti.
A tutt’ora sono stati organizzati tre seminari, ciascuno della durata di 12-15 ore, ripartite in tre giorni consecutivi. Si è ritenuto che il numero di insegnanti partecipanti al gruppo non potesse superare le 15 ÷ 16 unità, per permettere al gruppo stesso di lavorare con tutti in modo quanto più efficace possibile. Il programma di questi « Seminari sulla relazione pedagogica e la dinamica di gruppo », condotti da due operatori del Centro Reich, prevedeva:
– esperienze di dinamica di gruppo
– esercitazione sulla comunicazione
– affettività e razionalità
– il ruolo dell’insegnante nella relazione pedagogica
– potere, autorità, autoritarismo.
Le premesse
Il maggio francese del ‘68 e il movimento di cultura e di idee che ne seguì ebbero, tra gli altri meriti, quello di mettere in discussione la pratica di certe tecniche terapeutiche e di gruppo (ad esempio i gruppi psicoanalitici e i Training Groups). Rimandando ad un prossimo articolo un quadro che chiari- fichi l’evoluzione delle varie tecniche e delle teorie che le sottendono, mi limiterò a sottolineare l’uso che la cultura dominante ne fece. Alcune di queste tecniche, adoperate a livello di azienda, ebbero ed hanno tuttora lo scopo di preparare i dirigenti a « tenere sotto controllo la situazione », di appianare conflitti e contrasti, di scoprire chi potesse essere un germe di contestazione, di mettere le persone nel settore di lavoro che più le tenesse a freno. Questo uso fu decisamente contestato sia per la mancanza di una visione politica che collocasse gli utenti all’interno dell’intera istituzione e che analizzasse i ruoli e le funzioni dell’istituzione nell’attuale società, sia per il ruolo dei trainers (conduttori) che rimanevano sempre al di sopra del gruppo, utilizzando indisturbati la loro capacità manipolatoria.
L’obbiettivo istituzione scuola
Questa premessa può aiutare a chiarire cosa ci proponevamo realizzando un seminario di formazione per insegnanti, se si tengono presenti, naturalmente, anche le esperienze specifiche accumulate dal Centro Reich in questi anni sulla terapia di gruppo. I nostri presupposti teorici si riallacciavano anche all’analisi istituzionale, scegliendo come istituzione in cui intervenire la scuola, dal momento che il problema dell’educazione e formazione è un tema centrale nell’azione del Centro Reich (a partire dall’asilo a finire al consultorio). E anche perchè l’istituzione scuola è quella che più profondamente ha risentito del contraccolpo di una classe dirigente borghese che non ha nessuna intenzione di aprire realmente la cultura alle masse e spinge l’acceleratore della dequalificazione, dell’assenteismo, del disfacimento, rendendo drammatiche le contraddizioni già esistenti, ed evidenziando la crisi del ruolo dell’insegnante. Ci siamo rivolti agli insegnanti non nella visione ristretta di una parcellizzazione della realtà di lotta, ma nella convinzione che è necessario partire da realtà specifiche per poi riuscire a collegarle saldamente ad una visiona sociopolitica più ampia e generale. I nostri presupposti, infatti, erano quelli di tener conto dei bisogni reali degli insegnanti, collegando il livello personale con quello di gruppo, e con quello più ampio dell’istituzione scuola in tutti i suoi aspetti sociali e politici. Secondo noi era necessario poter analizzare come la scuola è organizzata anche a livelli di spazio e di divisione di tempo, e capire come la struttura stessa in tutte queste sue articolazioni agisce sui ruoli dell’insegnante, dell’allievo, della dirigenza, come blocca la comunicazione tra le varie componenti o come l’indirizza solo su certi canali, dividendo in spazi separati, in settori, in materie di insegnamento, creando regole e norme evidenti o nascoste.
L’impostazione dei gruppi
Questa presa di coscienza, gradino indispensabile per arrivare ad un’azione comune di lotta e di trasformazione, è facilitata se i meccanismi dell’istituzione scuola sono vissuti su di sè, e analizzati mentre si vivono. E’ importante, secondo noi, che in questi processi si tenga conto di tutto il contenuto emotivo e affettivo personale, e che questo contenuto non rimanga isolato da un lavoro politico (magari in un contrasto improduttivo) ma che ne sia il supporto. D’altra parte basti pensare al ruolo importante che gioca l’ ‘affettività nell’apprendimento, per intravedere la ricchezza di possibilità, ancora poco esplorate, di dare una solida concretezza (quella della capacità di modificare) ad espressioni quali
« il personale è politico ». La nostra esperienza di gruppi terapeutici, tenuti al Centro Reich, ci permetteva di spaziare da un’analisi delle dinamiche di gruppo ad un’utilizzazione del linguaggio del corpo, recuperando la ricchezza del patrimonio emotivo non per uno scopo terapeutico, di guarigione, nè per una semplice conferenza o lezione informativa. Abbiamo adoperato la parola formazione, proprio per sottolineare l’ampiezza dei processi che intendevamo toccare collegando sempre più organicamente il vissuto personale alle dinamiche di gruppo, al ruolo nelle istituzioni, al significato politico-sociale delle stesse.
Le tecniche di gruppo
La comunicazione è, in pratica, il terna di fondo del seminario, sin da quando il gruppo comincia a formarsi e i legami a stabilirsi. In una prima fase, i partecipanti analizzano ciò che succede nel gruppo: è un taglio brusco con i ruoli precostituiti che ognuno si porta meccanicamente dietro. E’ un attimo di riflessione su ciò che sta veramente succedendo dentro e fuori di noi, un processo a cui generalmente non siamo abituati, che crea ansia e disagio, ma nello stesso tempo una forte spinta a lavorare seriamente nel gruppo e una motivazione a cercare di lasciare da parte la maschera sociale. Non è detto che questo debba riuscire completamente; è importante che il processo si inneschi per fare a poco a poco nascere una dimensione di gruppo, una dimensione, cioè, in cui ognuno sia implicato il più possibile con tutti gli altri e non solo con qualcun altro. «Mancando un obbiettivo più specifico, nel gruppo manca il sostegno» «Non sappiamo bene i nostri ruoli » « Siamo abituati ad avere e trasmettere informazioni. Ora invece siamo i protagonisti. Questo mi mette in crisi, ma mi dà anche un senso di liberazione »: sono le osservazioni dei partecipanti al seminario, colte dal vivo. Il disagio per non sapere e non capire cosa si sta facendo, la preoccupazione di essere subito costruttivi, l’attesa che i due conduttori spieghino e agiscano (mentre si limitano a mantenere il gruppo nel suo compito iniziale di analizzare ciò che succede) fanno già scaturire una complessità di problemi che saranno l’intelaiatura del lavoro successivo, senza, spesso, che il gruppo nè prenda realmente coscienza. Per questo ci saranno tempi e modi successivi. (Ma è interessante notare come tutto il materiale da analizzare esca praticamente solo dal gruppo, sollecitato dai bisogni personali dei partecipanti). La formazione del gruppo, processo che ha appena inizio, ma che continua indefinitamente, viene aiutata dal vivere il processo stesso in maniera cosciente, anche attraverso il corpo. Ad esempio, tutti i partecipanti a turno entrano, scegliendo modi e tempi, nel cerchio formato da tutti gli altri che si tengono sottobraccio. L’espressione gruppale comincia ad arricchirsi di emotività, rompendo in parte il disagi o iniziale e la norma sociale dell’isolamento fisico.
L’insegnamento non autoritario
Uno dei motivi più importanti della crisi degli insegnanti è il tentativo fallito di negare il proprio ruolo autoritario, o l’illusione di aver realizzato questo tentativo, la quale si scontra con una realtà di rapporto pedagogico, invece, invariata. Tralasciamo per ora gli aspetti che si riferiscono alle personalità e alle strutture caratteriali degli studenti: irrigidite, durante gli anni trascorsi nella famiglia prima e nella scuola poi, in atteggiamenti di passività, di incapacità ad apprendere in maniera critica, di accettazione delle strutture e dei contenuti della scuola, di gregarismo nei confronti dell’insegnante o dei più bravi, di competitività e individualismi, e, quando vada bene, di ribellione non ragionata e insofferente, di scarico violento che include tutto e tutti e non permette una lotta cosciente contro le cause della repressione e l’emarginazione di classe nelle istituzioni. E’ mistificante, a nostro parere, pensare di aver negato il proprio ruolo autoritario per il semplice fatto di essere insegnanti di sinistra e di trasmettere in classe informazioni e analisi politiche, che di fatto sono totalmente calate dall’alto. Così come è un grave errore sottovalutare il ruolo autoritario e i condizionamenti impressi dalla scuola ritenendo di averli superati per il solo fatto di modificare in parte i contenuti dell’insegnamento.
La struttura spaziale
Per comprendere meglio quel che abbiamo affermato, basta esaminare le reazioni dei partecipanti ai seminari per insegnanti in una situazione spaziale così semplice quale quella di stare seduti su sedie messe in fila, come in una classe, mentre i due conduttori siedono su due sedie più alte, o in piedi, ma di fronte. « Il dialogo avviene solo tramite voi (i conduttori). Aspetto che siate voi a dare le risposte e a intervenire » « Sento la rigidità del posto » « Ho fastidio a stare davanti » « Così il gruppo non si forma, si formano solo frazioni di gruppo) « Mi dà fastidio la situazione… è parrocchiale. Il gruppo si disgrega e questo mi deprime» « Mi sento molto giudicata » «Voi (i conduttori) potete cogliere tutti con un sol sguardo, noi no » « Qui dietro non sto male, posso fare quello che mi pare; ma mi sento estraniato» E così via. E’ insomma la stessa strutturazione spaziale nella scuola ad essere veicolo di repressione, e non solo quella della classe, ma anche la divisione in classi e in aule, la mancanza di un posto specifico dove si possano incontrare gli studenti di classi diverse, se non nei corridoi o nei gabinetti, la sala dei professori riservata solo a questi ultimi, la totale assenza di strutture che facilitino la socializzazione, la separazione della componente segreteria », e così via. Questa separazione così rigida, e attuata già tramite la strutturazione spaziale dell’istituzione scuola, è garanzia della difficoltà di unirsi, confrontarsi, dialogare apertamente dei problemi concreti e personali tra le componenti della scuola, e quindi garanzia che la scuola conservi il suo ruolo condizionante e repressivo. L’acquistarne coscienza, anche e soprattutto attraverso il vissuto emotivo e personale era appunto uno degli obbiettivi che ci eravamo posti. La possibilità di discutere e di analizzare questi vissuti emotivi, proprio mentre è in atto la situazione che li provoca, permette di rendersi conto di quanto accade in tutte le implicazioni e i particolari.
La struttura dei tempi
Ma non è solo la struttura spaziale a perpetuare questa funzione « formativa» della scuola. La stessa strutturazione dei tempi ha una influenza ben specifica a proposito. Esistono differenze fra i tempi individuali, i tempi affettivi (che permettono di sentire) e quelli razionali (che permettono di capire), i tempi di gruppo, i tempi politici e sociali che incalzano certe situazioni. Non conoscere queste differenze è causa di incomprensioni, di incapacità ad affrontare lavori in gruppo, di incoerenze, di spinte individualistiche, e causa di formazione di personalità e caratteri rigidamente strutturati e condizionati. Esperienze di gruppo indicano come solo l’esistenza di un buon contatto interpersonale riesca a modificare notevolmente la rigidità di questi tempi, e portare a situazioni collettive costruttive. Ma un buon contatto implica necessariamente il coinvolgimento dei vissuti personali, dei problemi affettivi, delle preoccupazioni, dei bisogni e dei sentimenti, che, socializzati, diventano una ricchezza per il gruppo e gli permettono di agire nei confronti delle cause del disagio esistenziale, e in ultima analisi di seminare elementi per la trasformazione di una società di privilegi e di sfruttamento. E’ un processo, questo, che permette di orientare in senso rivoluzionario le capacità energetiche individuali, la forza dei contenuti emotivi repressi, dei bisogni frustrati, anzichè soffocare questi contenuti per tentare di rimpiazzarli (con quali risultati?) con falsi atteggiamenti positivi e razionali verso la vita e la lotta di classe, negando al contempo tempeste e caos profondi che si agitano in noi.
La presa di coscienza
Tutto questo riporta immediatamente a delle considerazioni relative alla istituzione-scuola, costituita appunto da gruppi: il gruppo professori di una stessa materia, il gruppo insegnanti della classe, il gruppo classe, il gruppo insegnanti democratici, il gruppo sezione sindacale. E’ importante, quindi, acquisire la coscienza dell’esistenza di tempi differenti, di chiusure e irrigidimenti personali, di impedimenti obbiettivi connaturati con l’istituzione, per poter raggiungere capacità organizzative e di lavoro soddisfacenti. Vivere e analizzare, allo stesso tempo, cosa facilita e cosa ostacola la struttura del gruppo, ascoltare se stessi e anche gli altri, socializzare ciò che si prova, che si sa, che si è appreso, significa partire da una situazione concreta, con persone diverse, ciascuna con il proprio vissuto storico, per poter arrivare ad un’analisi socioeconomica e strutturale più ampia, ma (ed è questa la validità) nata dalle situazioni e dalle persone stesse. Questo è quanto si fa nel seminario. Da qui possono scaturire anche proposte concrete per il proprio lavoro di insegnante. Ad esempio, quella di discutere in classe con gli studenti scelte personali ed esperienze relative al metodo di insegnamento, o far rivivere agli studenti stessi le tematiche sorte durante il seminario, socializzando, appunto, la propria conoscenza. Ma gli scopi che ci siamo prefissi non consistono tanto nel dare l’idea di nuove tecniche didattiche o di strumenti alternativi alla lezione classica, al voto e alle interrogazioni. Questo può essere fatto solo in una ricerca attiva che coinvolga gli insegnanti interessati al problema, all’interno stesso delle scuole, e magari utilizzando le esperienze acquisite durante il seminario di formazione. Quello che ci premeva era, invece, mettere a nudo tutte le conseguenze della didattica già esistente, dei ruoli assegnati, delle strutture ai vari livelli: sociale, affettivo, economico, perchè poi, nella ricerca di nuove tecniche e di una diversa scuola, si potessero tener presenti globalmente tutte le implicazioni esistenti in una relazione pedagogica, e quindi all’interno dell’istituzione scolastica.
Il linguaggio del corpo
Il linguaggio non verbale, e in particolare il linguaggio del corpo, è un tipo di comunicazione che esiste al di là del fatto che noi ce ne accorgiamo o meno. Una parte del nostro seminario è appunto dedicata al linguaggio del corpo, con tecniche che variano dal ricercare il proprio spazio (ma non più con gli occhi, bensì solo con le mani e con il corpo), ad espliciti tentativi di comunicare attraverso un contatto. E ancora, comprendere tratti della personalità attraverso l’atteggiamento delle varie parti del corpo e prendere coscienza che l’espressione corporea spesso è molto diversa da quello che esprimiamo verbalmente. Qui la ricchezza dei vissuti personali si intreccia continuamente con i problemi della scuola o con situazioni sociali ancor più generali: Il tabù del contatto, ad esempio, che nella scuola raggiunge una norma non esplicita, ma rigida, tra categorie differenti. La paura di esprii1ere affettività nei confronti degli studenti per non richiamare un contatto chiaramente sessuale. La falsità di certe situazioni di amicizia che non tenga conto della differenza dei ruoli. « La scuola è istituzionalizzata anche per il contatto, che può essere solo verbale », afferma uno dei partecipanti. Ci si accorge anche che spesso siamo disposti a scherzare con il corpo « ma guai a scherzare con la faccia », che è lo specchio più importante del nostro ruolo. Nasce tutto il problema dell’imitare l’altro, con il fastidio e il piacere che comporta e con la scoperta improvvisa: « Mi sono accorto di non aver mai osservato abbastanza gli altri ». Si capisce come possano nascere degli equivoci nei rapporti sociali, dal momento che, in una situazione di ostilità tra due persone, ognuno ritiene di aver « soltanto reagito all’atteggiamento dell’altro ». Si scopre « che il linguaggio non verbale è molto immediato e forte », e si collega l’esistenza di questo tipo di comunicazione ad una serie di problemi di rapporto con gli studenti: « Si può aver paura degli studenti senza accorgersene ed esprimere ostilità verso di loro » « Mi rendo conto di come molti studenti non abbiano fiducia in certi professori di sinistra» «Quando sono incazzata adopero inconsapevolmente tutti i meccanismi della scuola per essere repressiva, nonostante a parole io dica il contrario » « Gli schemi della scuola mi fanno comunicare solo alla classe e non vedo gli studenti come persone singole ». Uno dei dati più significativi, emersi durante questi seminari, è appunto la scissione esistente in ognuno di noi tra razionalità e affettività. Il ruolo autoritario dell’insegnante (e quindi condizionante per tutto quanto detto prima) si esprime non solo nei contenuti, ma anche e soprattutto nella relazione affettiva espressa con il linguaggio complessivo, molto più ampio di quello solo verbale (che comprende, tra l’altro, oltre al contenuto, il tono di voce, l’intensità, ecc.). Un altro dato è l’importanza della scelta, da parte dei professori di sinistra e delle sezioni sindacali, di obbiettivi politici capaci di creare interesse e aggregazione. Vale a dire obbiettivi che corrispondano ai bisogni personali e di gruppo di quel momento e di quella situazione, evitando di calare dall’alto analisi politiche globali che, se rendono la sezione sindacale la più avanzata sul piano ideologico, la riducono anche ad un’inerzia e ad un immobilismo frustranti.
Il ruolo del tecnico
E’ certo che in queste situazioni gioca molto il ruolo del leader, su cui sarebbe necessario scendere più approfonditamente. Per parte nostra possiamo dire che anche qui è necessario evitare mistificazioni. Non si può negare in assoluto la necessità dell’esistenza del leader, il quale esprime il livello e gli interessi del gruppo stesso, quando ne è portavoce, ne polarizza le capacità di gestione e organizzazione, attraverso la sua competenza, quando ne è guida. Negare il leaderaggio significa trascinarsi, nascosti o manifesti, problemi di competizione e ostilità, rifiuti, ecc, nell’azione del gruppo. Accettano, sia da parte del leader sia da quella del gruppo, permette un reale controllo sull’operato del leader stesso, che, da parte sua, fa di tutto per permettere la crescita degli altri. E’ interessante notare come questi meccanismi si ripropongano esattamente nel gruppo con gli insegnanti, a proposito del ruolo dei conduttori, dei tecnici. Noi abbiamo scelto di adeguare il ruolo .dei conduttori alle esigenze coscienti del gruppo; da una posizione molto direttiva e non implicata ad un coinvolgimento completo, man mano che il gruppo acquisisce coscienza del ruolo del tecnico. Così questo processo diviene realmente patrimonio collettivo. D’altra parte rispecchia un processo più generale che è necessario accelerare all’interno della società: rifiutare il ruolo manipolatorio del tecnico alienato dal settore stesso in cui agisce, dell’operatore sociale specializzato che esaspera l’individualismo borghese e la parcellizzazione della scienza e della cultura. La linea di tendenza che elaboriamo al Centro Reich è di reintegrare il tecnico nella comunità: il tecnico, con i suoi bisogni complessivi, esso stesso facente parte della comunità, come sua espressione operativa. E’ su queste linee di tendenze che si inquadra l’intervento con gli insegnanti, ed è a partire da questo specifico che il Centro Reich può dare un contributo, sul cui confronto costruttivo è possibile far crescere il movimento di lotta e di rinnovamento della società.