in “Il Corpo e le Psicoterapie” – Ed. Idelson, Napoli, 1985.
Luciano Rispoli e Barbara Andriello propongono un’ipotesi di psicoterapia integrata sulle teorizzazioni iniziali del Centro Studi Wilhelm Reich che ha sviluppato un insieme di proposizioni teoriche e metodologiche di una terapia che non intervenga solo su uno dei due poli della scissione psiche-soma.
CENNI STORICI
Nell’epoca vittoriana l’atteggiamento moralistico, di falso pudore e di senso di peccato nei confronti del corpo e delle sensazioni che da esso si sprigionano, raggiunge il culmine nella cultura europea occidentale. Il puritanesimo quacquero, mormone, settario, della filosofia americana dell’epoca, ben si innesta nel rafforzare la crescente repressione nei confronti di tutto ciò che ha, anche indirettamente, a che vedere con il risvolto materiale dei rapporti, delle relazioni d’amore. L’intero mondo della borghesia occidentale, nei paesi capitalistici, si attesta su queste posizioni e tende a sacrificare alla logica del profitto e della produzione industriale le fughe verso il piacere e verso le soddisfazioni istintuali, anche le più elementari. Di pari passo, avviene il recupero, a livello letterario e filosofico, dei filoni che, nella cultura passata, avevano sottolineato anche gli elementi di idealizzazione dell’amore e della donna. In questo quadro la cultura romanza dei trovatori, la cortesia giullaresca, il neoplatonismo rinascimentale, l’armonia e l’equilibrio del neoclassicismo ritornano solo nel loro contenuto di freddezza, di distacco e di mistica che si eleva al di sopra della materialità e della sensualità. Tutto questo contribuisce a corroborare una battaglia serrata contro la presenza, le esigenze, le necessità del proprio corpo e di una sessualità direttamente percepita e sentita. D’altra parte, coerentemente allo sviluppo dei processi economici e industriali, della divisione del lavoro, si richiede all’uomo un aumento di impegno e maggiori capacità produttive, e si relega la donna sempre più ad un molo subalterno nell’ambito della società: i compiti che le vengono assegnati sono legati alla riproduzione e alla necessità di cementare l’esistenza e la sopravvivenza del ruolo familiare. Quanto più questo modello prende il sopravvento, diviene preponderante, assoluto, invade il comportamento ufficiale, tanto più sono colpevolizzati gli aspetti corporei della relazione umana, ma non per questo scompaiono del tutto. Essi, invece, continuano a sopravvivere, ma relegati nella sfera del non confessabile, del non pubblico, del nascosto, dando sempre più spazio al fenomeno della doppia morale. Puritanesimo e libertinismo diventano i due estremi completamente contrapposti di una stessa esigenza negata, quella di un autentico contatto con le proprie passioni. Non è un caso, proseguendo nell’analisi della società puritana del primo Novecento, che lo stesso Freud ritornasse indietro su alcune delle sue posizioni che avevano sconvolto la mentalità della scienza ufficiale e messo in discussione il perbenismo dei salotti borghesi. Egli, che avevano rilevato ad esempio l’«esistenza» del corpo del bambino, il suo usare la bocca per attaccarsi al seno materno come oggetto di piacere, la sua crescita legata ad uno sviluppo della sessualità, che passa per delle fasi e degli organi capaci di procurare appunto questo piacere, non riesce a superare completamente a mentalità dominante, così tanto di questa era imbevuta la cultura scientifica del tempo.
Basti osservare questi brani dell’Introduzione alla Psicoanalisi, scritti nel 1916, per notare come ipotesi più aperte ad un’interpretazione sociale della repressione infantile vengano continuamente riprese e negate addirittura all’interno dello stesso contesto discorsivo :
« …l’uomo diventa nevrotico quando gli viene tolta la possibilità di soddisfare la sua. libido dunque, come mi espressi, in seguito al diniego ‘; …e i suoi sintomi sono appunto un surrogato della soddisfazione negata » 1.
« La somma di libido insoddisfatta che l’uomo può in media sopportare e limitata. La plasticità o la libertà di movimento della libido non sono conservate in pieno in tutti gli individui, e la sublimazione può esaurire sempre soltanto una data parte della libido, prescindendo poi dal fatto che molte persone posseggono a proprietà di sublimare solo in misura limitata ».
« Ma sotto l’influenza della maestra Necessità gli istinti dell’Io imparano ben presto a sostituire il principio del piacere con una modificazione. L’Io apprende come la rinuncia alla soddisfazione immediata sia inevitabile, come si debba rimandare l’ottenimento del piacere, sopportare una parte di dispiacere e lasciar cadere del tutto certe determinate fonti di piacere ».
Nell’ambito di questa tendenza alla restaurazione della Società di Psicoanalisi va collocata l’espulsione di Wilhelm Reich dall’Associazione stessa, di cui pure egli era stato negli anni dal 1924 al 1930 Direttore del Seminario di Terapia Psicoanalitica presso il Policlinico Psicoanalitico di Freud a Vienna, dal ’22 al ’28 Primo Aiuto Clinico, dal ’28 al ’30 Vice-direttore dello stesso Policlinico, e docente presso la Clinica Psicoanalitica a Berlino dal ’30 al 33, anno in cui fu costretto ad abbandonare la Germania sotto la dittatura di Hitler.
Da qui ha inizio uno degli episodi più incredibili di ostracismo e di linciaggio morale nella storia della scienza. L’attacco arrivò a concretizzarsi fino a raggiungere addirittura calunnie rozze ignoranti e di stampo medievale. I suoi libri in America furono bruciati nel 1956. L’accusa di pazzia fu così sottilmente costruita da essere ancora oggi o ritenuta vera o per lo meno da verificare con morbosa curiosità. L’ostracismo verso un autore che ha fornito tali ricchi contributi alle teorie psicoanalitiche lo si può misurare dal silenzio che le scienze psicologiche hanno mantenuto sul suo caso. Molti autori utilizzano concetti, intuizioni e scoperte di Wilhelm Reich. Eppure molto raramente viene citata la provenienza di tali scoperte, così come quasi mai nelle Università e nelle istituzioni deputate alla formazione e all’insegnamento la sua opera trova uno spazio e una collocazione, neppure in forma critica. Le ragioni, complesse e storicamente articolate, di un rifiuto così profondo vanno ricercate in parte in una condanna morale per aver rivelato le pesanti conseguenze di un’educazione repressiva, per aver denunziato le implicazioni patologiche del persistere di una doppia morale, e nell’aver messo in luce le esigenze di vita e di espansione dell’infanzia e dell’adolescenza. Ma non basta; tra le altre motivazioni che si possono facilmente rintracciare vi è senz’altro la tendenza (già riscontrata in altri casi) della scienza ufficiale a non rimettersi in discussione, a proseguire sugli errori una volta commessi, in una rigidità del suo evolversi che impedisce reali verifiche su un piano scientifico.
Già sacrificato sull’altare dell’ « attendibilità » scientifica interpretato malamente come paladino della sessualità genitale e « normale », Reich viene improvvisamente scoperto negli anni ’60 in Francia, nel clima del maggio francese e delle rivolte del ’68. Cosa viene divulgato principalmente di quest’autore? Un libro il cui titolo nella traduzione dal tedesco viene modificato da « La sessualità nella rivoluzione culturale », riduttivamente e non a caso, in « La rivoluzione sessuale », perpetuando (seppur usata come bandiera di protesta e di rottura anticonformistica) la stessa equivoca e restrittiva interpretazione che ne aveva dato la scienza ufficiale. Quest’ondata di successo si accompagna alla riscoperta del corpo, delle sue sensazioni, all’esaltazione della corporeità in tutti i suoi aspetti. D’altra parte il corpo « incarna », anche, una necessità di trasgressione delle norme costituite e della morale borghese. Nel clima di rivolgimento politico e sociale dell’Europa all’inizio degli anni ’70 confluiscono gli echi delle rivolte studentesche delle Università americane, con il loro messaggio pragmatistico che, in particolare a livello terapeutico, si esprime nella rivalutazione delle psicoterapie corporee, del contatto, nell’esaltazione dei linguaggi non verbali e nell’enfatizzazione del piacere emotivo di star bene in gruppo, nel restringersi ai vissuti attuali emergenti nel gruppo. Vengono, ad esempio, importati dall’America il lavoro sul «qui e ora» dei T-groups, sviluppatisi dalle teorie di Kurt Lewin, e le tecniche di contatto corporeo dei cosiddetti « encountergroups », derivanti dalle idee di Schutz. Ma vengono anche rivalutati in Europa tutte le filosofie e i modelli di pensiero di tipo orientale. Dilagano yoga, zen alimentazione macrobiotica, agopuntura, attinenti ad un uso più mirato e diverso da quello tradizionale occidentale del corpo, da tutti questi approcci posto in primo piano.
Il corpo, dunque, si afferma come « soggetto emergente » nella nuova società, così come soggetti emergenti sembrano diventare, almeno nell’entusiasmo degli anni ’77-’78, ceti e strati sociali tradizionalmente emarginati. Se tutto questo da una parte colpisce la vecchia morale, si impone come un cambiamento e, attraverso le esigenze del corpo, si incominciano a intravedere meccanismi e funzionalità biologiche fino ad allora ignorate o rifiutate, dall’altra porta in sé una profonda contraddittorietà. Ad esempio nel contributo che altre discipline danno all’accrescimento dell’indagine teorica sul corpo, l’etologia finisce poi per restringere l’esistenza del linguaggio non verbale ad una serie di schemi e di comportamenti geneticamente determinati, che possono addirittura essere riassunti in un vocabolario di gesti codificati. Desmond Morris rintraccia nell’atteggiamento della schiena dell’uomo l’espressione della rabbia animale come reazione di attacco-fuga; in certi movimenti del collo che scoprono la gola, un comportamento simile a quello innato dei lupi, quando bloccano l’aggressività di un compagno con questo gesto di sottomissione; oppure nei gesti del corteggiamento la stessa ricchezza dei patterns analoghi degli uccelli. In questa esasperata rivalutazione del corporeo si collocano ipotesi innovative, ma egualmente intrise di organicismo, nel campo neurofisiologico e neuropsichiatrico. Delacato attribuisce fenomeni di chiusura autistica a funzionamenti distorti delle soglie percettive; Tomatis individua nella ricezione dei suoni le cause e le possibili terapie di situazioni psicotiche. In un settore totalmente diverso si inventano nuovi interventi per l’infanzia e nuove figure che li mettono in atto: gli animatori e le tecniche di animazione. Anche qui il corpo diventa solo una acquisizione superficiale e meccanica attraverso il quale far giocare i bambini, inducendoli ad usare le mani o gli occhi nelle tecniche di manipolazione, e tutto il proprio corpo nei giochi di gruppo. Non vengono messe in discussione e ridefinite le tappe dello sviluppo psichico del bambino, ne tanto meno riassunta la complessità dell’emozione; ma il tutto, alla fine, nel recupero istituzionalizzato di queste spinte e di questi tentativi, si riduce in un « animare » il bambino, cioè stimolarlo a fare, senza tener conto dei suoi bisogni profondi e dando alle sue difficoltà risposte meccaniche. Impostare il problema in questi termini finisce per consentire a chiunque di autodefinirsi esperto del corpo e di sentirsi autorizzato a intervenire dopo aver appreso solo un insieme di giochi, genericamente attinenti alla creatività. Su questo processo riduzionistico pesa notevolmente il crollo delle illusioni scientifiche e tecnologiche, che avevano caratterizzato il periodo del dopoguerra fino agli anni ’60. La città del 2000, prefigurata come modello urbanistico di funzionalità e efficienza, si presenta alle soglie di questa era, più contraddittoria e invivibile di prima e, nello stesso tempo, vengono meno le speranze secondo cui il processo scientifico e le scoperte tecniche avrebbero risolto i problemi dell’uomo. Aumenta il disagio, aumenta la delusione, aumenta la corsa al ristretto benessere personale. C’è una grossa richiesta di capire e curare le problematiche psicologiche, ma anche di capire e curare le disfunzioni e le malattie sempre più psicosomatiche e sempre più dilaganti. La risposta che proviene dal settore delle scienze applicate è ancora una volta dettata dall’illusione che mettere insieme, elaborare e disporre di più dati, come nel computer, ed affidarsi alla perfezione della macchina vuol dire poter pianificare, risolvere, progettare. La risposta che proviene dal settore delle scienze psicologiche è anch’essa insufficiente. Da qui uno stimolo ad aprirsi uscendo da schemi ormai collaudati ma in parte inadeguati, e a cercare nuove vie, nuovi approcci terapeutici. Questo processo è in realtà più un avvicinarsi con curiosità a discorsi psicoterapeutici diversi da quelli ortodossi, specie a livello personalistico, che una presa di posizione ufficiale da parte di gruppi accademici o di scuole psicoanalitiche o mediche. In realtà 1’accettazione è molto lontana; l’apertura, che pure si registra in più settori, è estremamente travagliata, con continui ripensamenti e passi indietro.
Al di là di una scienza sclerotizzata, c’è invece un rilevante fermento culturale, denso di tentativi, di sperimentazioni, di ricerche. Si aprono nuovi orizzonti teorici, si approntano verifiche di tipo differente. Vengono criticate e infrante le separazioni nette tra discipline scientifiche affini e si affaccia la necessità, ad esempio, di affrontare la « persona malata », più che gli organi o le parti malate. II facile consenso e l’immagine seducente, che sprigionano dalle nuove psicoterapie, in particolare quelle basate sul corpo, incoraggiano iniziative imprenditoriali, a solo scopo economico nelle qua!i molto poco spazio è dato alla ricerca scientifica e ai suoi risultati. Questo e reso possibile anche dalle richieste sempre più pressanti delle persone di « star bene » presto e subito, di raggiungere la guarigione attraverso prescrizioni semplici e pragmatiche, di prendere quasi magicamente la « medicina » psicoterapeutica, qualunque essa sia, anzi meglio se più grossolana, appariscente, « sconvolgente ». Alla luce di questo si può capire come le persone così facilmente possono affidare (quasi un delegare) la propria vita interiore, la propria igiene mentale ad esempio al training autogeno (che in fondo è solo una delle tante « tecniche » di rilassamento) o all’ipnosi dinamica (che rida vita all’ipnosi, promettendo un immediato contatto e controllo totale delle comunicazioni non verbali del paziente) o alla miriade di presunti terapeuti e inusitate associazioni che, nascendo dall’oggi al domani, mescolano « bioenergetica », « rolfing », « gestalt » e ancor più imprecisate tecniche corporee, senza alcun costrutto teorico nè intendimenti sperimentali. L’esempio più clamoroso di mistificazione e di confusione è appunto l’ultimo prodotto imprenditoriale americano: la « ginnastica aerobica », che sale alla ribalta grazie solo ad un lancio pubblicitario, utilizzando vecchi e insignificanti scritti di un qualsiasi medico americano. Essa riduce ancora ulteriormente i tempi di realizzazione del « benessere »: basta un po’ di respirazione (ma come e di che tipo!) e dei movimenti a tempo di musica per « ritrovare la gioia di vivere », e modificare totalmente il rapporto con sé stessi.
La proliferazione di gruppi, movimenti ed « esperienze » che sembrano tutti mettere al centro la corporeità ed esaltarne il valore, in realtà quindi finiscono per svalutarla. Viene perpetuata ancora una volta la separazione tra il corpo, le sensazioni, l’emotività da una parte, e la testa, l’intelligenza, la capacità analitica dall’altra; dove quest’ultima continua ad assumere una funzione privilegiata e predominante. Ciò è ancor più svalutativo, anche se in forme meno appariscenti e più sottili, nei confronti delle potenzialità profonde dell’espressione corporea e del suo linguaggio, che non sono solo movimento, ritmo, massaggi, o riassumendo, il « non verbale ». L’integrazione psicosomatica, che sembra ovunque all’ordine del giorno, è ancora una conquista quotidiana, fatta di lotte, di ripensamenti, di alterne vicende tra posizioni più rigide e legate all’ortodossia, e quelle di chi intravede nuovi orientamenti e nuovi interessi che la scienza traccia in questo momento nell’affrontare tale ordine di problemi. Non è un caso infatti che in molti settori, come la medicina, la biologia, la neurofisiologia, si stia cercando di ricostruire più dettagliatamente i processi e i mediatori (chimici, ormonali, elettrici, etc.) attraverso cui si operano la sintesi e l’interconnessione tra vari livelli del funzionamento dell’organismo. Così ad esempio tra le varie ipotesi di eziologia del cancro, oggi sembra sempre più affermarsi quella che ricollega tale malattia a uno squilibrio energetico e funzionale, che coinvolge tutta la persona, e che solo dopo aver raggiunto livelli limite si converte in un’esplosione patologica come tumore di un determinato organo. Benson in America analizza le interconnessioni tra livelli psichici e livelli somatici nella patologia del cancro, ritenendo fallite le illusioni e le speranze poste nell’interferone come rimedio «dall’esterno»; Labourit in Francia studia le conseguenze, in termini di disturbi organici, della inibizione operata su emozioni profonde, non accettate e perciò non pienamente espresse. Queste nuove frontiere, percorse da varie branche della scienza, portano alla riscoperta di Reich, di alcune sue geniali intuizioni, come quella sulla malattia psicosomatica, da lui definita « biopatia retrattiva », che, solo in stadio avanzato, degenera in cancro; e fondamentalmente su tutte le ipotesi di fondo da cui muove la sua teorizzazione e la conseguente tecnica terapeutica, di cui la « biopatia retrattiva » è solo un aspetto, anche se altamente esemplare. Ed è proprio nell’aver dato un significato scientifico preciso sia all’interconnessione tra psichico e somatico (scoprendo concretamente i meccanismi di influenza reciproca e le strutture attraverso cui quest’influenza si esercita) sia all’identità funzionale tra struttura del carattere, attinente più all’area del mentale e del simbolico, e contratture muscolari e fisiologiche, gravitanti più specificamente nell’area dei processi biologici, che sta il valore incredibilmente attuale del pensiero reichiano, ricco di possibili e molteplici sviluppi ancora troppo poco utilizzati.
NOTAZIONI TEORICHE
L’’ipotesi da cui Reich muove è quella di un’unità originaria e primaria dell’entità psiche-soma, dalla quale è possibile far derivare, come ulteriore ipotesi di fondo, l’esistenza di una sostanziale unità pulsionale, così come, nel concreto dell’interesse pedagogico dello sviluppo del bambino, di una sostanziale unità dei processi di pensiero primario e secondario, cioè creativo e logico.
« L’unità bio-psichica della persona nasce inizialmente solo dalla tendenza a soddisfare pulsioni interiori, indipendentemente dal fatto che appartengono alla sfera della fame o della sessualità. Questo è impossibile senza entrare in contatto con il mondo esterno. Perciò ogni primo moto pulsionale di ogni essere vivente deve essere necessariamente una spinta verso il mondo esterno ».
A questo proposito anche in Winnicott possiamo leggere:
« Questa interrelazione della psiche e del soma costituisce una fase primitiva dello sviluppo dell’individuo… Lo sviluppo dello psiche-soma procede lungo una certa linea a condizione che la sua continuità d’esistenza non sia disturbata… Un ambiente negativo è tale perché non potendo adattarsi (al neonato), esercita una pressione a cui lo psiche-soma (cioè il neonato) deve reagire… Si tratta di una delle situazioni più penose, soprattutto perché la psiche è « sedotta » dall’intelletto rompendo l’intimo rapporto che essa ha, all’origine, con il soma. Ne risulta una « psiche-intelletto » che è patologica… È in questa crescita esagerata della funzione intellettuale in reazione a delle cure materne irregolari che possiamo vedere svilupparsi un’opposizione tra la mente e lo psiche-soma ».
Il significato che noi diamo al termine frustrazione non è solo quello di una proibizione esplicita nei confronti di una soddisfazione di bisogni e pulsioni sessuali, ma può essere esteso all’insieme di situazioni in cui l’ambiente non è in sintonia e non riesce ad accogliere l’espressione emotiva del bambino. Ciò provoca interferenze nella mobilità e nella motilità dei suoi processi, che possono concretizzarsi, ma solo successivamente, in una difficoltà di fondo nel suo progressivo distaccarsi, separarsi, rendersi autonomo. È dunque la profonda compenetrazione fra la pressione ambientale e le costellazioni configurative del tessuto affettivo-emotivo, che emergono nel corso dello sviluppo, a creare una scissione, che è, sotto questo profilo, soltanto secondaria.
Cerchiamo ora di descrivere come si produce questa scissione.
« Dall’antitesi Io-Mondo esterno, che si trova in seguito come antitesi narcisismo-libido oggettuale, deriva innanzi tutto una prima contraddizione all’interno della persona, e cioè l’antitesi fra libido come moto pulsionale che spinge verso il mondo esterno e angoscia che è la prima e più spontanea espressione di una fuga narcisistica dal dispiacere, rappresentato dal mondo esterno, e un ritorno nell’Io ».
« Sotto l’influenza di una pressione proveniente dal mondo esterno nasce un’antitesi all’interno della persona; una dissociazione e scissione di una tendenza unitaria fa sì che una pulsione si contrapponga ad un’altra, o che persino la stessa pulsione si scinda in una tendenza che continua a spingere verso il mondo e in un’altra che si ritorce contro sé stessa ». Vedi schema.
SCHEMA 1
In termini più semplificati e più generali, non riferiti quindi soltanto a livello pulsionale, lo schema, senza tener conto del contatto sostitutivo e della pulsione separata che è utilizzata come blocco di quella primaria, diventa:
L’interesse nel rivalutare questo semplicissimo schema sta in due possibilità che esso offre. Esso può essere riferito ad altri livelli di scissione, come nell’esempio seguente, in cui l’unità originaria è la capacità autonoma del soggetto di non ammalarsi o di correggere eventuali squilibri nel suo complesso funzionamento (e si potrebbero citare a sostegno di ciò tutte le ipotesi antropologiche di « autoterapie » individuali e di gruppo, in cui questa capacità si esprimeva attraverso rituali tribali, esorcismi, danze e movimenti collettivi, etc.). Sinteticamente chiamiamo questa capacità espressione emozionale integrata. Questa potenzialità, ormai perduta a livello collettivo nel nostro modello sociale, si perde anche a livello del singolo individuo sotto la pressione delle frustrazioni, così come le abbiamo definite, generando, nella sua scissione, la necessità di un intervento terapeutico a due livelli: l’analisi delle resistenze caratteriali e la mobilitazione neurovegetativa.
L’altro valore estremamente attuale in questo modello è che esso mostra in modo evidente, anche nell’immagine, come i due poli della scissione non solo erano connessi originariamente, ma sono tuttora collegati, sebbene in ambiti molto profondi, e, nello stesso tempo, sono nelle proprie manifestazioni esterne del tutto differenziati, con meccanismi autonomi e separati, ai quali è dovuto poi il persistere pervicace della scissione. Per questo è impossibile pretendere di intervenire efficacemente, nella terapia, solo su una delle due ramificazioni. Non basta; tenendo conto della loro interconnessione profonda, non si può agire meccanicamente sui due approcci unilateralmente e in modo separato, ma è necessario operare nella direzione dell’integrazione, con un intervento INTEGRATO. Pensiamo che a questo Reich mirasse, al di là della concettualizzazione che risente di precisi ambienti e vicende storiche, quando postulò che l’intervento terapeutico che egli aveva formalizzato potesse definirsi in un’unica esplicazione: terapia orgonomica. Noi, invece, pensiamo sia fondamentale mantenere il termine di vegetoterapia carattere-analitica (pur quando, a volte, possa apparire poco chiaro), per ribadire quanto sia illusorio immaginare di poter intervenire direttamente sull’unità originaria psicosomatica, sulla quale sono intervenute le pressioni disgregatrici delle strutture sociali predominanti. Una corretta impostazione terapeutica deve partire dalla coscienza dell’esistenza di una scissione già avvenuta nell’adulto e da questa muoversi contemporaneamente in due direzioni: la ricostruzione, attraverso la terapia di una reintegrazione del nucleo originano, e in secondo luogo un impegno per la prevenzione nel settore dell’infanzia, non tanto dettato da caratteristiche quali il buon senso, e l’interessamento benevolo e affettuoso, ma che tenga conto appunto delle ipotesi di partenza di una perduta integrazione primaria, e della centralità che il mondo « emozionale » ha nei processi evolutivi.
ALCUNI CASI
La paziente, dopo circa trenta sedute di una terapia individuale, sì stupisce perché ultimamente non le accade più di sognare. Si accorge che, non potendo più occupare tutto il tempo analizzando l’abbondante materiale onirico che prima riempiva la quasi totalità degli incontri, può finalmente affrontare, in tutta la sua difficoltà, il lavoro direttamente sul « corpo ».
Il tratto caratteriale dominante era stato, fin dall’inizio, una certa tendenza coattiva al lamento e a un mostrarsi, specie con il tono di voce, falsamente cortese, gentile, accondiscendente. Qualche seduta prima di quella a cui stiamo accennando, aveva potuto sperimentare, senza più mascheramenti, finalmente tutta la propria profonda tristezza e lo sconsolato senso di scoraggiamento, che venivano fuori, a poco a poco, da una maggiore consapevolezza della propria sofferenza, molto antica. Da quel momento in poi il lavoro sul corpo produce una ricchezza di reazioni molto intense. Il senso di vibrazioni interne aumenta via via; la gola mostra, durante la respirazione, in modo palese, l’esistenza di un blocco prima nascosto; la mascella facilmente si irrigidisce e si contrae; il tutto lasciando molto più chiaramente intravedere nell’espressione corporea un’emozione di ostilità e di rabbia trattenute.
A partire da questo primo risultato è possibile ora iniziare un lavoro profondo su tali sentimenti. In una vicenda alterna di espressioni più dirette di critica e di ritorni al lamento caratteriale, il lavoro con il corpo permette di evidenziare sempre più ciò che era al di sotto della gentilezza e della falsa cortesia. Il transfert negativo emerge in maniera sempre più consistente e si chiarifica. Circa venti sedute più tardi, la paziente può riprendere a sognare in maniera « normale », senza quell’eccessivo proliferare di sogni e senza la necessità di analizzarli in tutti i particolari. Ora può lasciare emergere la sua diffidenza nei confronti della terapia, sferrare il suo attacco e mostrare la sua rabbia aperta nei confronti delle figure affettive incarnate dal terapeuta. Ella scopre che la sua tendenza ad essere freneticamente attiva, a prendersi carico di nuove e continue responsabilità, nasconde la sua pervasiva, invadente, ma controllata paura di « perdere ». Comincia a sentire che realmente nella sua vita qualcosa è mancato, irrimediabilmente perduto soprattutto nella sua infanzia: cioè la tenerezza, l’affetto, le carezze dei genitori e quel senso di essere accolti e sostenuti, così fondamentale per un’accettazione di sé e per una percezione di sicurezza necessaria ad affrontare la vita.
Due episodi colpiscono nell’anamnesi, apparentemente diversi, ma emotivamente connessi col sentimento di non potersi affidar e abbandonare, di non ricevere cure necessarie nei primi momenti di vita. Durante l’allattamento, a causa della guerra, non poté avere latte per due giorni e pianse ininterrottamente. Più tardi, già grande, si accorse di non riuscire a tollerare i litigi fra i genitori: il suo problema fu sempre cercare di capire chi avesse ragione e il suo atteggiamento quello di essere costretta ad intervenire, cercare di mediare, farsi carico della situazione; per poi alla fine doversi schierare dalla parte della madre, «una povera donna che si lamentava sempre di non farcela, ma che non mostrava mai affetto per noi figli».
Alla sessantatreesima seduta la paziente finalmente non si sente più depressa durante l’incontro, come le accadeva quasi sempre. Appena ad un anno di distanza dall’inizio della terapia, il suo respiro è ormai fluido e presente in tutto il corpo; le braccia hanno una notevole mobilità espressiva, a testimoniare una intensa capacità di contatto e di richiesta, e anche gli occhi partecipano di questo contatto più vivace e diretto. È in questo periodo che riesce, finalmente, ad abbandonare completamente la sua testa nelle mani del terapeuta, ad appoggiarsi profondamente alla terapia.
Uno dei punti-chiave, che ci si mostrò in un altro caso, quello di Angela, una donna di 28 anni, affetta da fobie molto intense ed estese, fu il livello delle spalle e della schiena. Per punto chiave vogliamo intendere uno dei livelli muscolari che, secondo noi, sono suscettibili di produrre reazioni abbastanza intense e vitali, che innescano situazioni di modificazione e possibilità terapeutiche, senza scatenare intollerabili angosce. Questo caso riveste un interesse particolare poiché è possibile, seguendo lo svolgimento del trattamento psicoterapeutico rispetto ad un singolo distretto muscolare, mostrare l’avvicendarsi di reazioni emotive e vegetative legate a quella zona del corpo, a quell’apparato funzionale, e ai relativi processi fisiologici. Questo insieme di eventi affettivo-corporei acquista un senso, anche terapeuticamente, se lo analizziamo in base a quella che noi definiamo in un ambito evolutivo la stratificazione emotiva nei distretti muscolari. Ciascuna delle zone del corpo, cioè, « contiene » una molteplicità di sentimenti, più o meno bloccati e repressi, e quindi più o meno incapsulati nei muscoli, che ineriscono a quanto è accaduto fase per fase nella vita dell’individuo. Tralasciamo qui, rimandando ad altra sede, tutti gli aspetti teorici e l’analisi più dettagliata delle implicazioni di questo che è uno dei nodi fondamentali della nostra ricerca nell’ambito della vegetoterapia carattere-analitica, e ritorniamo al caso in esame. Inizialmente le spalle di Angela si presentavano contratte e spostate in avanti, a mostrare un sentimento predominante di paura e di chiusura; in particolare la sinistra, quasi richiamando una profonda fragilità e disintegrazione di tutta la sua vita emotiva e sentimentale. Il primo passo del lavoro da effettuare in una situazione del genere, è far entrare in rapporto la persona con la tensione in quella parte del corpo. I massaggi risvegliano la sensibilità e la percettività e quindi mettono in un primo momento in contatto con una sensazione di dolore. Il dolore significa accorgersi che quella parte c’è, è viva ed esistente. Un progressivo e graduale approfondimento dell’ampiezza dell’onda respiratoria, accompagnato da una mobilizzazione delle spalle e delle braccia, portò a poco a poco il punto di dolenzìa maggiore dalle spalle al petto. La schiena riuscì sempre meno efficacemente a « trattenere »; ad evitare, cioè, che emozioni ostili, ma anche tenere, arrivassero alla parte anteriore della persona, alla loro espressione verso l’esterno, attraverso l’abbracciare e il respingere, attraverso lo sguardo, attraverso le parole. Alla ventisettesima seduta emersero aggressività e rabbia. La paziente potè utilizzare tutta la forza che aveva nella schiena per comunicare attraverso gesti di minaccia delle sue braccia, attraverso movimenti di rifiuto e di spinta, tutta la rabbia trattenuta. Fu soltanto dopo un lungo lavoro su questi sentimenti infantili di opposizione, che ella potè ripercorrere l’emozione di crescere, di cominciare a camminare sulle proprie gambe. Ritornare a situazioni aggressive molto antiche per poi riprendere il cammino del proprio farsi adulto (attenuando i meccanismi di difesa caratteriali che non sono più necessari nella situazione attuale di sostegno terapeutico), suggerisce parallelamente la possibilità dell’uso di differenti posizioni del paziente nelle varie fasi di terapia. Non si tratta di far sperimentare soltanto lo stare distesi, supini, abbandonati, ne di dover necessariamente proporre solo la posizione loweniana del « grounding », dello stare sui propri piedi. Il suggerimento vegetoterapeutico più innovativo è quello di seguire le fasi regressive e ricostruttive, peculiari di ciascun individuo, non tralasciando le potenzialità di percezione-ricordo di altre posizioni; ad esempio del muoversi proni, dello stare carponi, e soprattutto del sollevarsi sulle ginocchia, « a quattro zampe », ripercorrendo un’esperienza che tra i sei e gli otto mesi è così importante e densa di significati per il bambino. Infatti è proprio in quel periodo che il piccolo sperimenta la possibilità di muoversi autonomamente, di andare esplorando lo spazio che lo circonda, di non essere più « supino » e supinamente in balìa dei genitori. Sono caratteristici di questo periodo i movimenti che fanno perno nella schiena e nel bacino, le oscillazioni di quest’ultimo, i primi tentativi nell’intento di verificare sempre di più le capacità di mantenersi alzato, da solo. Nel caso di Angela, fu proprio in questa posizione in ginocchio che si incentrò l’intervento ad un determinato punto della sua terapia. Le si suggerì di respirare profondamente in differenti posture, che riportavano ad una età molto precoce in cui ella aveva sperimentato le prime possibilità di muoversi senza ancora potersi alzare in piedi. La si incoraggiò a muovere la schiena, inarcandola e stirandone i muscoli, a partire dalle braccia e dalle spalle; e poi a sperimentare la sensazione di estendersi, di espandersi, individuando in che cosa questo le riuscisse ancora difficile, e quali fossero però le nuove sensazioni di forza e le nuove risorse che man mano emergevano, e sostenevano l’affermarsi di questo movimento. Ed è ancora in questa posizione che furono mobilizzate due cerniere fondamentali per la vitalità dell’intero organismo: il collo e il bacino. Le reazioni vegetative che ne conseguirono furono sensazioni di formicolii, di correnti che attraversavano tutto il corpo, di una sorta di respiro che « passava » attraverso la schiena; un senso sorta nella testa e sulla fronte, completamente opposto alle vampate di calore che, salendole improvvisamente alla testa, le suscitavano disagi intollerabili, sino ad un vero e proprio senso di panico. A questo punto il massaggio e il movimento nella schiena le si configurarono come una vera e propria possibilità di sostegno e nutrimento, oltre che di calore affettivo. È di questo periodo una seduta in cui, a seguito di una ulteriore mobilizzazione della schiena, ma anche del torace, si generarono un forte tremito e intense clonazioni in tutto il corpo (opposte alla predominante immobilità che le portava il depressivo senso di morte), come per un risveglio di sensibilità e di eccitazione mai provate e mai sperimentate, anche a livello emotivo. Dopo aver sempre sentito sino a quel momento come dolente e sgradevole ogni distretto muscolare, quando veniva sollecitato, le fu possibile invece abbandonarsi a delle sensazioni di pienezza e di piacere, durante un massaggio nella zona della schiena; sensazioni che, a poco a poco, si irradiarono verso il bacino, verso le gambe, a tutto il corpo. Nelle sedute successive si raggiunsero sempre più facilmente stadi di profonda regressione, insieme ad un « tranquillo senso di benessere », così tipico nel lattante quando sente di poter essere pienamente accolto e sostenuto nelle sue esigenze primarie. Alla sua consueta impressione di freddo incolmabile subentrava un senso di calore, seguito da leggeri brividi, da tremori un po’ più accentuati e poi da una calma diffusa che, a poco a poco, induceva in un sonno fiducioso e restauratore. Da questa serenità scaturivano sentimenti di forza, di decisione e di calma, rinsaldati dall’espressione di autoaffermazione e dai gesti di aggressività, che ella stessa scopriva con stupore e meraviglia, quasi fossero del tutto inconsueti.
Spesso dall’« ortodossia » reichiana non viene considerato il livello della testa come un livello autonomo, a sé stante, poiché la presenza degli occhi in questa parte del corpo attira quasi tutta l’attenzione, cosicché un lavoro su questo segmento unisce per interessare quasi sempre solo il blocco oculare. E’ interessante invece poter osservare, prendendo in considerazione la parte alta della testa, quanto sia complesso il vissuto emotivo e quanta abbondanza ci sia di percezioni e ricordi significativi ad essa legati durante i primi anni di vita del bambino. E infatti con la testa che il bambino fa il suo ingresso nel mondo, si spinge affrontando la vita, misura sin dove arriva l’estensione del suo corpo durante il suo sviluppo e la sua crescita. È ancora dalla testa che partono le più forti e profonde esigenze (legate anche al periodo intrauterino) di essere sorretti, protetti, contenuti. Uno dei gesti più significativi, infine, anche nei confronti degli animali che vivono a contatto con l’uomo e che recepiscono in maniera molto netta il senso di tale segnale, è la carezza sulla testa. I primi interventi specifici sul livello della testa, nella terapia di un paziente di quaranta anni che prenderemo in considerazione come altro esempio, non iniziarono prima della ventisettesima seduta, troppo denso di implicazioni e di ansie minacciose sarebbe stato lavorarvi subito. I massaggi su tutta la parte superiore della testa, il tenerla, da parte del terapeuta, fra le sue mani, le leggere pressioni sulla sua sommità, il muovere e lo spostare la testa in differenti e particolari posizioni, suscitarono una serie di emozioni che, man mano, andavano affiorando insieme a ricordi della vita passata, rivissuti nella situazione attuale. La prima reazione, più chiaramente ancorata alla struttura caratteriale attuale e recente, consisteva nell’aver compreso di non riuscire ad esercitare il gire del terapeuta. Ciò che vi si sostituiva era l’accettazione di non farcela, di avere bisogno di aiuto. Una successiva fase di giramenti di testa risvegliò un’antichissima paura: il panico nei confronti della gente degli estranei. Durante queste sedute affiorarono una quantità di ricordi; tra questi soprattutto una spiacevole sensazione, da adolescente di essere poco « maschile, ma nello stesso tempo incapace, disordinato e inadeguato, in tutto ciò che intraprendeva ». E insieme a queste due sensazioni che si ripresentarono in maniera così netta da colpire per la loro immediatezza, si affacciò alla memoria l’episodio di un’aggressione soffocante subita da un compagno di giochi nell’infanzia, rispetto alla quale si sentì paralizzato e incapace di qualsiasi reazione. In età ancora più precoce, quando aveva due anni e mezzo (età a cui il lavoro di regressione aveva condotto) era rimasto spaventato da « un individuo strano » (probabilmente psichicamente disturbato) che spesso incontrava sotto casa sua, e che gli suscitava paure terribili e intollerabili. Proseguendo nel lavoro terapeutico, il paziente cominciò a sentire di avere dentro di sé una parte che in realtà non gli apparteneva: l’atteggiamento freddo e distaccato della madre. Sentì addirittura che la personalità materna l’aveva come « invaso » e che questo gli impediva di reagire alle situazioni di aggressione, di chiarire, magari anche attraverso il litigio, i rapporti con le donne e di sentirsi un’entità autonoma e realmente separata. Dopo nemmeno dieci altre sedute ritornò il tema del controllo: le eccessive cortesie e i regali che continuamente profondeva nei confronti degli altri, cominciarono ad apparirgli nella loro funzione reale, quella di accattivare e nello stesso tempo di prevenire e di tenere a bada l’aggressività degli altri. Un periodo di aumentati dolori alla testa e alle tempie condusse a richiamare la sua attenzione su tutto ciò che la sua testa aveva dovuto fare durante la sua vita: badare a sé da solo e occuparsi di sé stesso, poiché occuparsi di lui per la madre era stato sempre un fastidio e un peso troppo grandi. La tristezza per questa sua solitudine antichissima, affiorò anche in altri ricordi: quell’aspettare così a lungo e così malinconico, nelle sere d’inverno, guardando alla finestra, alla luce fioca dei lampioni stradali, il rientro in casa del padre, per altro sempre imbronciato e silenzioso. Insieme alla tristezza venne fuori una voglia « nuova » di abbandonare questo continuo controllo e di poter affrontare il timore di affidarsi. Cominciò ad attenuarsi contemporaneamente anche il terrore di mostrare un rifiuto, di dir di no, soprattutto nei confronti della partner, a cui era molto difficile che chiedesse qualche cosa. Non poter rifiutare alimentava un circolo vizioso, impediva di prendere ciò che gli faceva piacere: chiedere, allo stesso modo, avrebbe significato pretendere smisuratamente tutto. Attraverso l’esperienza di affidarsi finalmente al terapeuta, e nello stesso tempo sentendo che con i suoi movimenti e la sua voce ricominciava a saper esprimere un diniego solo verso ciò che realmente non voleva e non verso tutto il mondo indistintamente, il paziente riscoprì di poter essere meno rigido verso sé stesso, più tollerante, e quindi anche più vicino ai propri bisogni.
Il caso di Anna, una paziente di trentaquattro anni, sposata e senza figli, ci permette di illustrare altri aspetti di questo nostro discorso. Anna da piccola era molto accondiscendente, buona e dolce. Parlava molto poco, rivelando già da allora una tendenza oppositiva molto debole, e comunque solo indiretta. Da un po’ di tempo cominciava a rattristarsi intensamente di non aver portato a termine nessuna delle gravidanze iniziate perché erano state interrotte da aborti spontanei sempre intorno al terzo o quarto mese. Ciò che l’opprimeva era anche un sentimento di abbattimento, che persisteva diventando sempre più cupo. Durante la terapia, apparve sempre più chiaro che gli atteggiamenti caratteriali e muscolari che prevalevano erano quelli di « trattenere », di non lasciare uscire nulla. Aveva fra l’altro sempre mestruazioni scarse, urinava molto poco durante la giornata; aveva sofferto e soffriva di calcoli al rene destro. Anna era una donna che non sapeva resistere alla tentazione di mangiare, e mangiava anche abbondantemente ma si disprezzava continuamente per questa ragione. Presentava inoltre un’immobilità di tutto il corpo, una respirazione appena superficiale. Analizzando i vari livelli muscolari, la pelvi si rivelò come un punto centrale, un modo di questa ritrazione caratteristica e nel contempo un punto chiave anche del lavoro terapeutico. Si scopri infatti che le reazioni più immediate e frequenti nascevano dall’intervento terapeutico iniziato in quella parte del corpo e si sviluppavano m molteplici sensazioni, quali la nausea, il freddo, un fluire di correnti nel corpo. Sollecitando la mobilizzazione della « cerniera » pelvica con l’aiuto del movimento delle gambe e di tutta la parte bassa del corpo, si innescava nuzialmente una reazione di irrigidimento nell’altra zona focale della sua struttura muscolare: il collo. E’ da notare che il collo è anche, non a caso, l’altra fondamentale cerniera del corpo umano, poiché separa la testa dal tronco. Già dopo una decina di sedute il suo atteggiamento tipico di trattenere si comincio ad allentare in fenomeni vegetativi di evidente distensione, quali sbadigli, lunghi sospiri e soprattutto abbondanti scariche di urina. Conseguente a questa maggiore distensione fu la comparsa di correnti, formicolii e pruriti localizzati nella zona pelvica, e in particolare nella vagina. Sebbene il movimento non si comunicasse con altrettanta intensità alle gambe e ai piedi, che rimanevano freddi, questa zona apparve chiaramente investita da un’energia prima evidentemente negata e compressa. Nonostante le paure che il calcolo renale potesse smuoversi e dolere, ella finalmente accettò di dare colpi per sollecitare con forza e più attivamente la zona del proprio bacino. A poco a poco andò scoprendo che questo movimento non solo non le provocava alcun danno, ma risultava addirittura piacevole e stimolante, in quanto smuoveva la sua forzata immobilità e produceva ulteriori sensazioni che, irradiandosi da questa zona, si estendevano fino a tutti gli arti, sin nella punta delle mani e dei piedi. Ora il lavoro procedeva con maggiore facilità, più speditamente, e riusciva a creare un contatto reale con numerose sensazioni che avevano sempre più una connotazione di benessere e di piacere. Del resto anche la funzione respiratoria diveniva più fluida e meno meccanica. ad un punto preciso nel corso di questa fase, dopo appena trenta incontri terapeutici, che comparve un episodio, non solo particolarmente significativo, ma anche risolutivo di tutta una problematica presente inconsapevolmente nel lavoro su questo livello. La paziente, che aveva appena appreso di essere riuscita ad ottenere l’adozione di una bambina, negli ultimi tempi molto desiderata, riferì di avere avuto poco dopo una fortissima colica, nel corso della quale ebbe la netta sensazione di avere « espulso » il calcolo, o comunque un qualcosa dall’interno. Durante il periodo della colica e del forte dolore, non desiderò ricorrere alla madre che abitava accanto e a cui sempre si rivolgeva, perché sentì che le avrebbe impedito e reso difficile quella sensazione di poter finalmente piangere e soffrire liberamente. Non solo, ma ritrovò improvvisamente la capacità di ribaltare i ruoli all’interno della propria coppia coniugale. Abitualmente infatti era stata sempre lei a confortare e a sostenere il marito; in quell’occasione invece lo chiamò vicino a sé, rendendolo partecipe della sua situazione, e gli si affidò lasciandogli sperimentare la possibilità di accudirla e di essere al contempo lui « forte », « calmo » e « sereno ». Fu così che ella poté « godersi » pienamente, singhiozzando, gridando, lamentandosi ma con un senso di travagliata liberazione questi dolori che incalzavano ad intervalli regolari, proprio come in un parto! A riconferma ulteriore del significato simbolico di questo evento le sembro che ad un certo punto avesse addirittura spinto fino ad espellere qualcosa di grosso, quasi come la testa di un bambino. Anna raccontò poi di essere rimasta successivamente per tre giorni a letto, spossata, febbricitante, ma con un senso indicibile di sollievo e di contentezza, e con la sensazione di dover restare leggermente piegata verso la pelvi, quasi come a rimarginare una ferita. Finalmente, dopo aver voluto provare con il suo corpo l’esperienza sempre negata del partorire (esperienza che attiva molta energia nella pelvi), proprio per produrre, far nascere, buttare fuori, e dopo aver accettato negli ultimi tempi di prendersi cura di se, piuttosto che accondiscendere sempre ai bisogni degli altri, poté sentire m sé la forza di lasciare la terapia, di allevare il figlio adottato, di occuparsi di lui con una voglia e un desiderio mai provati sino allora.
La possibilità di analizzare dei casi cimici correnti, soffermandosi però sui singoli livelli o distretti muscolari emotivi, porta all’evidenziarsi di notevoli prospettive e risultati particolarmente interessanti. Attraverso un’analisi dettagliata dei singoli livelli si può notare come sia ormai da considerarsi superata la divisione in «tipi caratteriali», introdotta inizialmente da Reich, entro cui classificare 1’insieme dei disturbi. È utile capire come invece in ognuno dei segmenti evidenziati da Reich sia incapsulata l’intera storia emotiva-affettiva di ciascuno, in un sistema complesso che noi definiamo « stratificazione delle emozioni ».
Per accennare soltanto ad uno dei punti più interessanti dello stadio raggiunto dalla ricerca nel Centro Studi Wilhelm Reich basti considerare che nella struttura corporea sono operanti non tanto i vissuti emotivi direttamente, quanto le vicissitudini e quindi le possibilità di espressione che essi hanno subito nella delicata interazione tra individuo e ambiente. Da ciò deriverebbe che in realtà non esiste, come alcune interpretazioni teoriche pretenderebbero, un ben definito ed unico luogo corporeo deputato ad ogni determinata emozione, ma sarebbe più corretto parlare di « momenti » nella propria esistenza in cui tale emozione è apparsa, e differenti parti del corpo con le quali essa è stata messa in « movimento », espressa direttamente all’esterno. D’altra parte l’ambiente familiare, gli adulti, possono accogliere e comprendere le manifestazioni emozionali dei bambini, oppure ignorarle in parte, lasciarle cadere senza coglierle; o ancora percepirle a stento in un vero e proprio rifiuto inconscio. È chiaro quindi come nel corpo si vada strutturando una mappa delle emozioni in modo stratificato ed ulteriormente articolato, proprio a seconda delle vicissitudini subite dalle esperienze di accoglimento o rifiuto da parte della realtà esterna. La storia che così si inscrive nello « psiche-soma » di ciascuno fornisce anche un preciso filo conduttore da seguire durante il processo terapeutico. È possibile individuare, ad esempio, quali siano le fasi da intraprendere inizialmente, gli interventi più utili per procedere efficacemente e speditamente verso significativi cambiamenti. Queste fasi infatti possono essere connotate in modo molto chiaro dal punto di vista sia degli atteggiamenti caratteriali che dei segmenti muscolari, che possono risultare elementi determinanti di passi fondamentali e di risvolti terapeutici. È come se, nel corpo dell’individuo, si potessero ritrovare quelli che noi definiamo « punti chiave », seguendo criteri ben precisi che per brevità non possono essere affrontati in questa introduzione; punti chiave che consentono, se si parte da essi, di ritrovare più facilmente connessioni ed espressioni che mettono il paziente in diretto contatto con i suoi nuclei emozionali più profondi. Questo concetto permette di dare un senso scientifico, al di là dell’intuizione del terapeuta, e una concreta attendibilità alla sequenza di interventi da attuare nella vegetoterapia carattero-analitica; percorrendo le tappe indicate sia dai punti chiave, sia da ciò che affiora nel lavoro sulla « stratificazione delle emozioni », il terapeuta può capire su quale distretto ed emozione intervenire, quale cercare di sciogliere, quale rinforzare: e cosa realmente si intende quando si sostiene che a volte è importante agire non direttamente su di una zona bloccata, ma attraverso i cosiddetti « livelli contigui ». A partire da questa base teorica, è possibile dare un fondamento scientifico allo sviluppo complessivo dell’intervento terapeutico nelle sue varie fasi, superando quelle posizioni approssimative e confuse, che sostengono come unico strumento operativo un generico « sentire », che ‘non va oltre l’entrare in contatto o intuire; e superando anche quelle altre che continuano a riversare sul corpo manipolazioni, pressioni, massaggi come unico filo di conduzione terapeutica. In questa concezione del corpo come sistema, e quindi come relazione complessa fra livelli, sottosistemi fisiologici e neurologici, rappresentazioni mentali e simboli, ci sembra che le posizioni attuali siano piuttosto ferme a postulare ancora separazioni e scissioni, sostenute nei fatti se non addirittura teorizzate. La psicoanalisi, ad esempio, se da un lato concede spazio, nello studio delle prime forme di organizzazione del pensiero, alle esperienze psicomotorie e corporee del bambino, dall’altro non ritiene che si debbano stimolare analoghi processi complessivi durante le fasi costruttive e ricostruttive di una terapia. Le espressioni del corpo qui sono ignorate o tutt’al più alcune di esse sono osservate, relegate però solo ad un piano di ulteriore comunicazione di materiale inconscio, puramente simbolico, nell’intento di non modificare i limiti e i significati della regola dell’« astensione » o delle « libere associazioni » rigorosamente mentali. Non molto differente è in fondo l’attenzione dei gestaltisti per il corpo, specie riguardo alla sua utilizzazione nell’analisi del transfert e del controtransfert. Se c’è un interesse apparentemente maggiore alle forme del comportamento e dell’espressione somatica, è solo perché queste sono considerate come tramite per accedere al piano più generale che riguarda il modo di percepire e pensare la vita. Le parti del corpo sono in questa occasione più che altro un simbolo di parti intrapsichiche del sé; ed è su queste che la Gestalt appunta maggiormente la propria attenzione. Sembra allora che il corpo, quasi appendice dell’apparato psichico, possa essere modificato nei suoi atteggiamenti emotivi semplicemente come conseguenza di cambiamenti degli schemi di pensiero e del modo di rappresentare se stessi a livello mentale. Le percezioni corporee nel pensiero kleiniano sono ancor più relegate su di un piano meramente fantasmatico. La scissione primaria è addirittura il fondamento teorico della scuola inglese, secondo la quale le esperienze infantili sarebbero molto spesso un tentativo di riparazione a quelle angosciose sensazioni innate di destrutturazione e di relazione parziale con l’oggetto materno, a cui il corpo contribuisce come fonte di impulsi terrificanti e insostenibili. Anche l’impostazione della teoria psicosomatica, contrariamente a quanto comunemente si creda, sembra porre una scissione precisa e netta tra il corporeo ed il mentale, il soma essendo solo uno specchio dei conflitti psichici. Qui sembra che non ci sia proprio « autonomia » dell’esistenza somatica, poiché tutto, qualunque malattia, è curabile solo attraverso un intervento sul piano della simbolizzazione delle proprie patologie. Nel proseguire in questa panoramica, così sintetica e perciò per forza di cose parziale e imprecisa, sulle varie posizioni nei confronti del somatico, non possiamo tralasciare la teoria della comunicazione. Questa riprende sì l’importanza del linguaggio non verbale, ma senza inquadrarlo dal punto di vista teorico, senza scendere ai meccanismi e ai significati psicologici che può avere anche su piani di funzionamento fisiologico. L’attenzione è sui processi di comunicazione, sulla struttura del linguaggio, più che su quanto avviene all’interno dell’individuo e nella relazione tra i processi emozionali e somatici. Può così accadere che con una separazione troppo netta e insostituibile solo il corporeo venga considerato sede di comunicazioni ambigue, mentre al verbale sia affidato tutto il compito di trasferire i contenuti e i significati dei messaggi. In realtà noi sappiamo che sia in ogni messaggio verbale che in ciascuna comunicazione non verbale c’è una parte di « contenuto » e una di « relazione » e che quindi la contraddittorietà può ritrovarsi sia tra il piano verbale e quello non verbale, sia però anche all’interno dell’uno o dell’altro. Ma anche in quelle discipline in cui i « movimenti » del corpo sono l’oggetto dell’osservazione ci si è mossi prevalentemente in direzione del mantenimento di una dicotomia tra gli aspetti del dualismo mente-corpo.
In Etologia per esempio si sono analizzati i messaggi del corpo, ma secondo una chiave interpretativa che tiene conto quasi soltanto di quei comportamenti che sono schematici, di quei patterns legati più al funzionamento della specie che alla storia personale degli individui. Il concetto di Identità funzionale di Reich, invece, ha permesso se non altro di dare un decisivo contributo per cominciare a lavorare verso un superamento di concezioni mutilate unidimensionali della persona e delle sue manifestazioni psicoaffettive. Quello di « identità funzionale » è uno dei concetti fondamentali del pensiero reichiano. Esso sta a significare che « gli atteggiamenti muscolari e caratteriali nell’ingranaggio psichico hanno la stessa funzione, possono influenzarsi reciprocamente e sostituirsi vicendevolmente. In fondo sono inseparabili e nella loro funzione sono identici ». L’identità funzionale di armatura caratteriale e corazza muscolare è alla base dello studio della struttura e delle funzioni di quest’ultima e, in ultima analisi, della Vegetoterapia carattero-analitica. Su queste ipotesi iniziali il Centro Studi Wilhelm Reich ha sviluppato successivamente un insieme di proposizioni teoriche e metodologiche di una terapia che non intervenga solo su uno dei due poli della scissione psiche-soma, ma nemmeno sull’uno e sull’altro in modo concomitante, però in fondo separato. Le successive elaborazioni del significato di carattere-corpo e di vegetoterapia carattero-analitica, ci hanno permesso di intervenire a livelli integrati in una concezione del corpo che è globale e non parzializzata. Ciò non significa negare che nell’esistenza quotidiana una scissione, spesso patologica, esista. C’è una notevole differenza tra questo approccio e coloro che pretendono di partire da una integrazione illusoriamente ancora intatta, da evidenziare quindi soltanto, piuttosto che da ricostruire. Quelli che vengono spesso ignorati in queste terapie (e quindi ancor più spinti alla rimozione all’interno del paziente) sono in genere i sentimenti negativi nei confronti del terapeuta, i sentimenti di rifiuto, ostilità, di rabbia del paziente; ancora una volta non accolti, nell’illusione di proiettare le persone verso un miglioramento tutto roseo di potenzialità dormienti e (non è allora ben chiaro per quale motivo) non utilizzate. Partire dalle lacerazioni, dai conflitti, dalle ambiguità esistenti in ciò che e diventato nei pazienti lo psiche-soma, per sollecitare una mobilita tra i vari livelli e all’interno di ciascun livello, è ciò che noi definiamo approccio integrato. Questo è possibile se si parte da una profonda accettazione dell’esistenza di due persone, paziente e terapeuta, che sono comunque su due piani diversi ma comunicanti: essi non percorrono lo stesso tragitto, ma neppure due strade completamente separate. Soltanto potendo osservare il processo terapeutico dal punto di vista non solo di chi accoglie ma anche di chi si affida, soltanto utilizzando le risonanze emotive e le implicazioni psico-somatiche sia dell’uno che dell’altro, è possibile condurre una psicoterapia senza il pericolo di tralasciare alcuno di quei numerosi aspetti e di quei piani su cui di fatto si muove comunque il rapporto; il che permette di ricostruire faticosamente, e a volte solo parzialmente, quell’integrazione originaria infranta.