in L’età dell’uomo” n. 23 – Ferrara, 1988.
Luciano Rispoli propone di affinare le capacità di intervento sul disagio e sul disturbo psichico, a qualunque livello si presentino, di apprestare metodologie sempre più specialistiche ed efficaci in ogni contesto: dalle psicoterapie individuali alle richieste avanzate ai consultori e servizi pubblici; dai problemi dei singoli a quelli familiari e gruppali; dalle situazioni di strutture e istituzioni alle esigenze formative e ristrutturative di aziende e di industrie.
Uno dei problemi più delicati che interessano la Psicologia Clinica è connesso al fatto che questa disciplina è troppo spesso considerata all’interno di una dimensione applicativa e quindi investita da esigenze di tipo soprattutto tecnicistico. La richiesta pressante è di affinare le capacità di intervento sul disagio e sul disturbo, a qualunque livello si presentino, di apprestare metodologie sempre più specialistiche ed efficaci in ogni contesto: dalle psicoterapie individuali che si svolgono “protette” negli studi analitici, alle richieste avanzate ai consultori e servizi pubblici; dai problemi dei singoli a quelli familiari e gruppali; dalle situazioni di strutture e istituzioni (come scuole, ospedali, servizi) alle esigenze formative e ristrutturative di aziende e di industrie. Le necessità di risposte di tipo “psicoterapeutico” al disagio e al malessere così diffusi si fanno più pressanti nella misura in cui crescono la consapevolezza del proprio non star bene. Le circostanze in cui emergono più chiaramente alterazioni nel funzionamento psichico dell’essere umano risultano moltiplicate da due condizioni oggi presenti nel sociale. In primo luogo c’è indubbiamente un aumento delle situazioni stressanti nella vita di ogni giorno; un’ansia diffusa e insinuante che nasce dalla vita caotica delle metropoli, dalla minaccia portata all’ambiente naturale, dall’inquinamento, dall’alterazione degli equilibri ecologici e, non ultima dal pericolo radioattivo e dal disastro planetario di una guerra atomica finale. Credo che per la prima volta i bambini vivano così da vicino e tanto concretamente l’incubo di una distruzione su larga scala, tragicamente e perennemente incombente. In secondo luogo l’attenzione della società nei confronti degli squilibri e delle disfunzioni, soprattutto relativi alla prima e alla seconda infanzia, è cresciuta enormemente. Se riflettiamo è soltanto da poco (storicamente parlando), da non molto più di un secolo, che si è iniziato a considerare adeguatamente il bambino sia nelle relazioni sociali che in quelle affettive. Ed è solo negli ultimissimi anni, dalla nascita della psicologia clinica e dinamica, dai progressi della psicologia evolutiva, che i processi psichici, emotivi e affettivi dell’infanzia sono studiati adeguatamente, con una base scientifica e metodologica che permetta di superare affermazioni moralistiche e di principio su come allevare ed educare i bambini. L’ampliarsi della richiesta di “psicoterapia”, di un intervento inteso, in senso lato, come necessario per la sofferenza psichica, per i problemi di disadattamento, per i blocchi di apprendimento, per le turbe familiari e così via, non deve però far cadere in un pragmatismo scollegato da ogni rigore teoretico, con una logica del “fare per il fare”. Per quanto pressanti siano i bisogni è necessario sconfiggere l’illusione che sia sempre preferibile un qualunque caotico movimento piuttosto di una saggia attesa nella quale siano preparate e raccolte le forze per un intervento sanitario e sociale così importante. La definizione dei modelli teorici diviene in quest’ottica un momento indispensabile nel procedere della Psicologia Clinica verso la definizione operativa di prassi, metodologie e tecniche, perché queste da sole, slegate da un’elaborazione e da una sistematizzazione adeguate, rischiano di alimentare un confusivo e caotico empirismo. Vorrei anzi aggiungere che un modello psico-clinico non può e non deve rimanere isolato in se stesso, né limitarsi ad un ristretto settore del funzionamento psichico dell’uomo. E’ necessario invece che sia in grado di spiegare e dare ragione di campi allargati e molteplici dei processi di relazione dell’organismo, in tutte le fasi del suo sviluppo e in tutte le circostanze sociali. Perciò una teoria di psicologia clinica deve poter tenere in considerazione lo strutturarsi delle istanze psichiche, il formarsi dei meccanismi tipici della persona nelle varie funzioni, il modo di procedere nelle tappe del processo evolutivo. Per lo stesso motivo nella sua visuale deve poter rientrare anche lo studio delle alterazioni e delle disfunzioni dei processi di relazione e di socializzazione sia ali interno del Sé sia tra sé e gli altri, come base eziologica dell’”ammalarsi psichico”. Questo discorso ci porta in due ambiti diversi: il primo concerne la sperimentabilità e la scientificità del modello, e le sue connessioni con i vari ambiti della ricerca; il secondo ci interessa più da vicino perché esplora i contributi che provengono da settori emergenti della ricerca psicologica e ci introduce al tema specifico dei modelli che attualmente tengono conto dei livelli corporei nella strutturazione e nell’alterazione dei processi del Sé. Credo che oggi la Psicologia Clinica ha percorso un cammino sufficiente perché si senta consolidata nel novero delle Scienze, nelle quali può collocarsi con una propria dignità, senza più dover temere il pericolo di confusione con schemi e paradigmi non suoi, come quelli filosofici o medici. Ciò può voler significare una maggiore serenità nell’addentrarsi in terreni non tradizionali, che però aggiungono dati significativi e fondamentali per la comprensione unitaria del funzionamento psichico umano. Ma soprattutto può far voltare pagina sui perenni problemi di collegamento tra sperimentazione e metodologie di intervento, tra ricerca e teoresi di riferimento. Queste ultime sono notevolmente marcate da differenze e peculiarità che le distinguono una dall’altra: ma la teoria della complessità, verso cui l’epistemologia tende oggi, valorizza le differenze, il dibattito, il dialogo interno, la multidimensionalità, rinunciando a quegli arcaici sforzi monolitici e ossessivi, di rifondare su un tutt’uno appiattito e senza spessore la costruzione teorica di una disciplina. Sperimentabilità, dunque, può indicare le possibilità di accorciare le distanze tra teoria e prassi, tra ricerca scientifica e idee interpretative, tra fatti e spiegazioni, tra oggettivo e soggettivo.
Ciò si può esprimere in tre direzioni fondamentali:
1) Verifica sperimentale. E’ una strada difficile in Psicologia Clinica e molto controversa. Ciò non impedisce che con opportuni accorgimenti sia possibile impiantare condizioni sperimentali con campioni di controllo e con variabili abbastanza selezionate.
Si tratta comunque di riportare ad un atteggiamento di continuo ripensamento teorico quello più pragmaticamente “curativo”. Oltre ad utilizzare un metodo sperimentale, per postulare nuove ipotesi e per comprovare quelle esistenti, si tratta anche di avviare una verifica dei risultati che si basi sul prelievo di dati quantitativi, su una pratica di follow up da svolgersi a distanza di tempo, attraverso screening e parametri diagnostici che appartengano al singolo approccio clinico.
2) La sperimentazione va vista però anche come coerenza epistemologica del modello e del sistema teoretico, che devono poter ampliare la costruzione delle loro proposizioni scientifiche verso generalizzazioni più ampie senza contraddire ipotesi e proposizioni precedenti.
3) Ricordiamo sempre che la Scienza moderna opera su una concezione ipotetico-deduttiva che non pretende di trovare la verità, la coincidenza con la realtà, ma che la interpreta, per forza di cose, riduttivamente. Non ci si deve però aspettare che quello scientifico sia un sistema isolato, che non guarda poi per niente a quanto accade nella realtà stessa e negli altri settori della conoscenza. Il terzo punto riguarda dunque la necessità di connessione con la ricerca, con i risultati nuovi che emergano dalla sperimentazione in altri campi vicini e attinenti allo strutturarsi di processi e di funzioni nei vari livelli dell’organismo umano.
Si richiede ad un modello di non contraddire gli aspetti più aspetti più significativi degli studi sulla “psicologia di base” come matrice fondante della più specialistica psicologia clinica, di essere capace di riconnettere e inglobare dati relativi agli stadi evolutivi dell’infanzia, di dare spiegazioni ed adoperare al proprio livello anche elementi di fisiologia, di biologia, di antropologia e così via. Ora quando parliamo di costruzione e dinamica del Sé ci troviamo appunto in quello spazio epistemico in cui operano modelli evolutivi e modelli clinici in stretta connessione, in cui la prassi operativa, ad esempio psicoterapeutica, deve essere strettamente collegata alle teoresi di riferimento. Altrimenti rischia (come di fatto spesso succede) di rimanere una tecnica empirica, una sorta di rimedio a volte personalistico, proposto da questo o da quell’operatore; che si avvicina troppo pericolosamente all’inconoscibilità ed inspiegabilità della pratica magica. Questo è stato particolarmente vero nelle tecniche terapeutiche “corporee” di cui si è avuto negli ultimi anni un abnorme sviluppo, quasi in reazione ad un silenzio e un ostracismo secolari, paradossalmente più intensi proprio negli ultimi periodi di maggior avanzata della scienza. Nello studio dei processi psichici il corpo appare infatti o del tutto assente o al massimo connotato da un ruolo subordinato, di rispecchiamento passivo e sottomesso. II corpo è invece sì studiato in anatomia e medicina, ma considerato soprattutto come sede di funzionamenti meccanici, come struttura inerte, perché troppo spesso guardato nella staticità della morte, nei cadaveri sezionati negli obitori. E quando si affaccia nella cultura scientifica psicologica spesso ciò accade solo a livello di ipotesi del tutto generali che riguardano al più le prime esperienze di vita nella necessaria “costruzione della realtà”, quando la parola non è ancora presente; ma senza studiarne appieno i significati interni profondi. E’ ciò che ritroviamo in autori come Piaget, Vygotskij, Chomsky, Brunner; e per altri versi, nel settore clinico, nello stesso Freud, in Winnicott, nella Klein, dove il corpo è visto come momento iniziale per la nascita del pensiero, sul quale poi poter agire del tutto autonomamente. D’altra parte il corpo, colpevolizzato anche nel campo della morale “perbenista” vittoriana, sacrificato insieme al piacere per gli interessi produttivi dell’era capitalistica in espansione industriale, prepara il suo ritorno sulla scena verso la fine degli anni ‘60. Incarnando anche una necessità di trasgressione delle norme e della morale borghesi diventa un vessillo (agitato propagandisticamente più che studiato scientificamente) delle rivolte studentesche in America prima e in Europa successivamente. Esso finisce per rappresentare un momento d’incontro anche in molte tecniche terapeutiche, mentre il gruppo in contemporanea si afferma, in fondo per la prima volta, come possibile strumento di intervento, in un percorso che da Le-win porta a Schulz, da Bion a Foulkes. Nello stesso tempo si importano e hanno grande successo filosofie e pratiche orientali, nelle quali il corpo è sì stato presente da millenni, ma quasi sempre in forme che in fondo assumono aspetti di realtà metafisiche: amore universale, karma, destino, energia vitale. Gli schemi processuali e funzionali dei modelli teorici dello yoga, dell’agopuntura, dello zen, sfuggono al metodo scientifico tradizionale, eludendo connessioni e sperimentazioni, sistematizzazioni e verifiche sperimentali. Se dunque il corpo si afferma da noi come soggetto nuovo ed emergente alla fine degli anni ’70, ciò avviene non senza profonde e pericolose contraddizioni. Esso è spesso solo una moda, un’acquisizione superficiale e meccanica, oppure un oggetto di piacere, un mezzo per affermare il proprio ruolo; o infine uno strumento per costruirsi l’immagine voluta di sé nel sociale, il look più attraente o più sconvolgente. Costruzione è un termine da prendersi nel senso letterale, laddove i vari Silvester Stallone impongono l’idea di macchine-muscoli, di corpi mostruosamente gonfiati, di body-building appunto, mentre le palestre con attrezzature sempre più fredde ed efficienti si moltiplicano a velocità incredibile. Non dimentichiamoci che è il tempo della grande illusione del benessere, che annovera tra i momenti più significativi i successi folgoranti della danza moderna o dell’aerobica come panacea per sconfiggere di tutto: dalla cellulite all’ansia, dalle paure ai dolori, dall’invecchiamento all’angoscia. D’altra parte bisogna anche riconoscere che il fermento culturale sul corporeo apre nuovi orizzonti, infrange vecchie e rigide separazioni fra discipline che si scoprono più collegate di quanto sembrasse, mentre da più parti si comincia ad affrontare la persona malata in una visione più globale e complessiva, e non più come pezzi da sottoporre a medici superspecialistici. Ma molto spesso questo accade in forma caotica, superficiale e approssimativa, quando non si perpetua in modo opposto l’antica scissione dualistica mente-corpo. La corporeità a volte è solo apparentemente al centro dell’attenzione, perché ritorna ad essere o valore mistico m come nel pensiero orientale, o presenza acritica e ascientifica, e perciò ancora una volta svalutata e svalutante. In Italia la storia del corpo, e soprattutto del corpo in psicoterapia, non è molto dissimile. Nasce dagli stimoli delle teorie di Reich, tradotte per la prima volta nella seconda metà degli anni ’60, e attraversa la rivolta culturale di classi e di soggetti politicamente emergenti: giovani, femministe, infanzia. Ma studi sistematici e ricerche scientifiche sono ancora carenti. La Comunicazione non verbale è spesso vista solo in chiave di linguaggio di gesti codificati o di gesti-segnale, mentre la compier sita del funzionamento corporeo e la profonda interazione con i processi e le alterazioni psichiche sono frequentemente ridotte a meccanici rispecchiamenti. Oltre al filone dell’analisi caratteriale e della vegetoterapia, che trova una ricerca sistematica condotta a Napoli dal 1968 ad oggi nella prima struttura di “psicoterapia ad integrazione corporea” sorta in Italia, bisogna annoverare quello della medicina psicosomatica, che trova una sistematizzazione teorica complessa ed articolata, e quello della sessuologia clinica rivolta ad un ben specifico settore di intervento. II panorama comincia successivamente a complicarsi, ma non tanto per l’ampliarsi dei sistemi teorici esistenti, o per il sopraggiungere di nuovi modelli completi e congruenti. Proliferano, invece, in maniera abnorme, sottocorrenti, personalismi di allievi e scissionismi che cambiano solo particolari e modificano termini, fraseologie o aspetti del tutto secondari. Si inventano così miriadi di nuove pratiche terapeutiche che solo raramente hanno alla base una verifica scientifica, una ricerca approfondita, ad un’ampiezza di respiro sufficiente e significativa: molto più spesso sono solo pensieri ed opinioni personali che aumentano il senso di confusività e frammentano i campi di delimitazione delle teoresi e dei modelli più seri, collaudati e verificati. Perciò nel futuro bisognerà muoversi sempre più verso una tendenza che porti a chiarire, riconnettere, specificare ambiti e modelli, in una continua riconnessione con ricerche e verifiche sperimentali, arricchendo e riportando nell’alveo dei grandi filoni della psicologia clinica, dei sistemi teorici solidi e provati quanto di serio e valido c’è oggi, prima di pensare a suddividere, frazionare, inventare nuovi nomi e nuove etichette. La creatività non bisogna trovarla per forza nella novità più fantasiosa o nel modello più bizzarro, così come l’autenticità e l’identità di un modello terapeutico o di un terapeuta non si misurano con la esasperata tendenza a differenziarsi da tutto e da tutti, ma piuttosto nella capacità a proseguire una “scuola”, a raccogliere e collegare, a portare avanti studi e ricerche in cammini nuovi, ma anche nelle direzioni che chi ci ha preceduto aveva già tracciato.