in “Psyche Nuova” n. 1-2 1995.
In questo articolo vengono approfondite le origini della psicoterapia corporea, passando per i suoi sviluppi, fino ad arrivare alle nuove concezioni teoriche della stessa.
Le origini della psicoterapia corporea
Erano gli anni ’20 quando Wilhelm Reich proponeva le prime ipotesi sull’esistenza di interconnessioni profonde e complesse tra lo psichico e il somatico, sulle leggi di identità funzionale tra due aspetti di una medesima realtà, sulla necessità in psicoterapia di intervenire anche sul versante corporeo. In realtà già dalle formulazioni di Freud si era cominciata a delineare la necessità di uno studio dei funzionamenti psichici che tenesse conto dei processi corporei. In Freud questo aspetto si presentava, in accordo con il modello della scienza del tempo, come “biologismo”, nella sua teoria delle pulsioni. Ma il corpo in ogni caso non poteva essere relegato alla sola storia infantile dell’individuo; esso era comunque presente anche all’interno della stessa relazione terapeutica, nei suoi processi di comunicazione, anche se si era intenzionati a coglierne solo gli aspetti verbali, simbolici, o fantasmatici. Il corpo esiste nei silenzi, nel tono di voce, nelle posizioni che il terapeuta assume rispetto al paziente nel setting, nei movimenti. Con il corpo si parla e si agisce anche se in modo implicito o inconsapevole. E nella terapia ci sono ben presenti sia il corpo del paziente che quello del terapeuta. Ecco perchè l’importanza del corpo in psicoterapia è stata in fondo sempre riconosciuta nella storia della psicologia clinica, anche se in maniera sotterranea e non organica. L’interesse per il corporeo è sempre stato vivo, e ha spinto numerosi ricercatori ad affacciarsi su questo vasto e affascinante spazio.
La storia delle terapie è dunque punteggiata di autori che si sono mossi in tal senso. All’interno del modello psicoanalitico è sufficiente citare la tecnica attiva di Ferenczi, l’esperienza emozionale correttiva di Alexander, l’holding di Winnicott, il concetto di amore primario di Balint, le concezioni sulla metodologia e sulla tecnica di Racker; via via fino alle formulazioni sul Sé di Fairbairn, di Kohut, di Stern e alle recenti tesi sull’haptonomie di This e Veldman. Esempi altrettanto significativi vengono da altri modelli clinici: dal behaviorismo con i suoi concetti, ad esempio, di modeling e flooding, dalla gestalt con il suo interesse per come il corpo si rappresenta e rappresenta se stesso agli altri, dagli studi di Schultz, con le sue tecniche di training autogeno somatico, e così via. Ma Reich rimane comunque colui che fondò le basi di una nuova teoria corpo-mente, che teorizzò l’approccio diretto, profondo e sistematico, al corporeo in terapia. Le sue scoperte e le sue osservazioni costituiscono ancor oggi una pietra miliare nel cammino che la scienza ha fatto in questo specifico settore. Il suo concetto di identità funzionale tra psiche e soma apre la strada a tutte le discipline e le metodologie che su questa concezione si sono originate o si sono sviluppate. Unità e identità psicosomatica si aprono alla grande scoperta che nel corpo è scritta tutta la storia delle nostre emozioni e dello sviluppo della nostra vita, sin da quando nasciamo. Reich è dunque il più importante tra i ricercatori che posero le basi della grande area teorica della psicoterapia corporea, avendo per primo dimostrato, con intuizioni per quel tempo eccezionali, che era necessario integrare il lavoro terapeutico tradizionale con interventi sul corpo, mirati a modificare condizioni muscolari e neurovegetative che altrimenti avrebbero continuato a retroagire sul paziente riportandolo allo stato di malattia. Sotto l’impatto di alcuni aspetti di Reich recuperati in Europa negli anni ’60 (dopo il suo ultimo periodo biofisico americano), della pratica degli encounter groups che si diffondevano negli stessi anni in California, per la spinta delle idee di Schutz, di una rivalorizzazione delle discipline corporee orientali, di esperienze di danza e di movimento, di ricerche sulla psicomotricità, nascevano e si moltiplicavano numerose tecniche di psicoterapia corporea. A volte, però, queste tecniche rimanevano fini a se stesse, senza una teoria di riferimento; altre volte finivano per perdersi in un eccesso opposto, rispetto alle terapie verbali, puntando prevalentemente se non esclusivamente al corporeo. Sta di fatto che tutto questo fermento di ricerca e sperimentazione aveva saldamente avviato, al di là di comprensibili errori, un movimento inarrestabile che avrebbe portato ad una delle aree teoriche della psicologia clinica più ricche di fermenti e di potenzialità.
Gli sviluppi della psicoterapia corporea
Sono passati 70 anni da quando sono state poste le prime basi di questa antica ma ancor oggi innovativa area della psicologia, che è andata avanti per cammini non sempre facili, che ha trovato troppi ostacoli al suo ingresso nella scienza ufficiale, e che a volte si è anche persa in rivoli e rami collaterali di scarsa importanza o di non corretta impostazione scientifica. Ma nonostante tutte le difficoltà, la psicoterapia corporea in questi 70 anni si è notevolmente sviluppata, ha lasciato indietro impostazioni troppo meccanicistiche, visioni parziali e limitate, tentazioni mistiche, atteggiamenti esageratamente esperienziali, concezioni troppo intuitive. E in questo lungo e tortuoso cammino si è ad un certo punto ritrovata come identità, come area teorica e tecnica (anche se estremamente multiforme), come grande modello del funzionamento umano. Certo, la psicoterapia corporea ha molto sofferto per una sua vocazione a privilegiare l’esperienza e il sentire, più che la concettualizzazione e il cognitivo. In tutti questi anni non si è scritto a sufficienza, e a volte solo per descrivere casi clinici: senza riflettere, senza collegarsi agli altri autori, senza confrontarsi, discutere ed aprirsi alla critica reciproca. E’ stata privilegiata la dimensione dello sperimentare, del laboratorio, del momento di incontro con il nuovo. Ma questo non significa che lo sviluppo teorico non ci sia stato, che il cammino svolto, ancorché complesso e non sempre scientificamente limpido, non abbia poi prodotto una crescita di conoscenze, di tecniche, di applicazioni in vari campi, con un aumento complessivo delle potenzialità che già la nuova concezione mente-corpo ipotizzata dai primi autori portava dentro di sé. E’ a questo sviluppo che deve essere dato oggi più spazio, valorizzando le teorizzazioni scientifiche più valide, gli autori che hanno ritrovato la strada del confronto teorico; e non per un interesse parziale di un modello, ma nell’interesse della psicologia tutta. Bisogna avere più “orecchie”, più “occhi”, per una grande e antica area teorico-clinica che ha dato uno dei contributi più interessanti allo sviluppo del sapere, e il cui solo peccato è stato quello di non preoccuparsi di “occupare” posizioni di potere istituzionale.
Le concezioni teoriche della psicoterapia corporea
La psicoterapia corporea si caratterizza non tanto per l’uso diretto del corpo in terapia, ma fondamentalmente ed essenzialmente per una differente teoria del funzionamento mente-corpo: non più di tipo piramidale, con una mente che controlla tutto dall’alto, ma di tipo “circolare”, in cui tutti i vari piani psicocorporei contribuiscono in modo paritario alla complessa organizzazione dell’organismo. La razionalità, i ricordi, il mondo simbolico, e poi le posture e i movimenti, e ancora il mondo delle emozioni, e infine l’insieme dei sistemi interni fisiologici, sono altrettante funzioni psicocorporee che, profondamente integrate e interconnesse nel bambino, possono invece successivamente sconnettersi tra di loro e diventare limitate e sclerotizzate. La rabbia può manifestarsi solo nella mascella e nei pugni inconsapevolmente serrati; un volto esprime tristezza senza che la persona se ne accorga; una delusione diventa direttamente contrazione allo stomaco; mani sudate e tachicardie svelano una paura non percepita; i pensieri possono ritornare sempre sugli stessi punti; le fantasie possono essere ossessivamente paurose; i muscoli tesi producono un perenne stato di allarme; e così via. E’ in particolare la psicologia funzionale (nata di recente dallo sviluppo della psicoterapia corporea) a studiare sistematicamente le relazioni tra tutti questi piani, le leggi che li regolano, il modo in cui antichi vissuti si sono cristallizzati in ciascuno di essi, continuando ad interferire sotterraneamente nella vita di ogni giorno. Nella terapia ad impostazione funzionale si mira a far riemergere tali funzionamenti sepolti, a rimobilizzarli, a ricostruire le originarie connessioni tra tutti i piani dell’unità psicocorporea: ricreando armonia ed equilibrio tra i vari aspetti della persona, e restituendo la capacità di operare nella vita di relazione in modo adeguato alle reali condizioni ambientali e con una piena capacità di contatto. Risulta da tutto ciò molto chiaro, dunque, come la psicoterapia corporea non sia caratterizzata dal fatto che ha per oggetto del suo intervento anche il corpo; così come la terapia familiare non viene banalmente connotata solo dal suo occuparsi della famiglia, e la gruppoanalisi dall’applicare pedissequamente la psicoanalisi al gruppo. Occuparsi della famiglia ha portato ad un accorgersi di funzionamenti e processi che riguardano il soggetto come parte di un “sistema familiare”, con leggi di relazione ben precise. Così nella “gruppalità” (rete, matrice, transpersonale) si sono andate rivelando l’esistenza di quelle che possono essere definite le gruppalità interne del soggetto, vale a dire un modo di leggere e interpretare il funzionamento umano attraverso un’ottica del tutto particolare. Allo stesso modo, l’aver utilizzato direttamente il corpo in terapia (toccandolo, mettendolo in movimento, modificando posture e modi di muoversi, massaggiandolo in determinate maniere), non può essere visto solo come un’aggiunta di una nuova tecnica, ad altri modelli di psicoterapia ma costituisce un fattore di trasformazione radicale di tali modelli. Quando si è cominciato a lavorare col corpo e sul corpo in psicoterapia, ben 70 anni fa, sono stati messi alla luce una serie di fenomeni, di relazioni, di processi fino a quel momento non ancora inquadrati, che, come per gli esempi del gruppo e della famiglia, hanno modificato profondamente il quadro epistemologico di partenza, la cornice teorica iniziale, e naturalmente l’insieme delle tecniche adottate. Non poteva che essere differente, da tutte le precedenti, la teoria di personalità in grado di spiegare tali fenomeni, così come profondamente diverse apparivano le ipotesi sulle fasi dello sviluppo del bambino, dalla vita perinatale in avanti. Nuove, infine, erano le riflessioni che portavano a trovare i motivi dell’insorgere di alterazioni nel funzionamento psicofisico delle persone: dai disturbi più semplici alle patologie più complesse. Tutto questo è accaduto perché in psicoterapia corporea non ci si interessa del corpo limitandosi solo a parlarne, o a coglierne le sensazioni interne, né ci si ferma solo al guardare. All’ascolto e allo sguardo si aggiunge il contatto corporeo diretto. Il corpo, allora, entra pienamente in scena all’interno della relazione, come oggetto e come soggetto, come corpo che sente, che si muove, che interagisce, come corpo protagonista di quanto accade. E questo in ogni caso: che il corpo sia “preso” o appena toccato, che gli si faccia fare piccoli e delicati movimenti o grandi movimenti, quando venga dato spazio all’affiorare spontaneo delle sensazioni o quando si scelga la strada di sollecitarle dall’esterno. Il punto centrale del problema è la constatazione che nell’utilizzare comunque un contatto fisico con il paziente si trasforma e si rivoluziona completamente il quadro teorico di riferimento. Quando si introduce la tecnica della “scultura della famiglia” nella terapia familiare, non si può non ammettere che l’agire del corpo e sul corpo produce movimenti ed accadimenti che hanno una loro specificità, che non è la stessa dell’immaginare quelle azioni o simbolizzarle. Succede qualche cosa che non può essere raccontato a parole; e cioè – traduciamo noi – qualche cosa che non può essere spiegato con i paradigmi di quel modello teorico, con quei costrutti e con le loro parole usuali. Perché – dobbiamo chiederci da un altro versante – alcuni psicosomatisti introducono il lavoro corporeo diretto sostenendo la necessità della tecnica della respirazione per i pazienti psicosomatici? Quando gli psicoanalisti, per fare un altro esempio, introducono il contatto diretto con il corpo del paziente (in alcuni casi dichiarandolo ufficialmente, come nella psicoterapia di relaxation o come nella haptonomie di Veldman e This) cosa si finisce per introdurre di completamente diverso nel quadro teorico di riferimento?
Per capirlo vale la pena di chiedersi preliminarmente perché lo fanno. Se infatti i processi corporei, psicosomatici, sono – come essi continuano a sostenere a livello della teoria – preverbali e presimbolici, a niente servirebbe ritornare a queste arcaiche esperienze motorie e percettive, perché esse non potrebbero mai accedere a ciò che costituisce il fulcro della trasformazione in psicoanalisi: la possibilità di elaborazione e di simbolizzazione. Non dimentichiamo che l’agire in psicoanalisi è considerato un “acting out”, uno “scaricare” direttamente, un qualcosa che si oppone alla rielaborazione. Ma anche se si tentasse, da parte del modello psicoanalitico, di spiegare gli effetti ottenuti con l’approccio diretto al corpo come dovuti a “differenti stati della coscienza”, a nulla servirebbe comunque entrarvi, poiché questi stati di coscienza sarebbero separati e non potrebbero avere alcuna influenza sugli stati di coscienza adulti, sulla vita simbolica, sulle condizioni attuali. Ogni volta che si volesse ritornare a quelle esperienze sarebbe giocoforza riutilizzare quegli stessi strumenti che avevano permesso di accedervi: tecniche corporee particolari o sostanze che alterano appunto lo stato di coscienza. Se invece si ammette che un’influenza diretta dei piani corporei e dei relativi differenti stati di coscienza sulla vita adulta simbolica esiste, allora si è usciti dal quadro psicoanalitico, e si è appunto nelle formulazioni della psicoterapia corporea. Ma, anche nel caso che la psicoanalisi arrivasse ad accettare l’ipotesi che i processi psicosomatici non sono solo preverbali e presimbolici, conservando però intatto tutto il proprio impianto teorico, risulterebbe ancor meno giustificato far intervenire direttamente il corpo in terapia, dal momento che non sarebbe neppure necessario andare a “recuperare” motoriamente tali esperienze, quando ciò di cui ci si dovrebbe occupare è al massimo la rappresentazione mentale del corpo, i vissuti, i processi simbolici che lo riguardano. Cosa accade nel muovere e toccare il corpo che induce una certa area della psicoanalisi a trasgredire il principio di astinenza; principio che non è certo di ordine morale ma squisitamente teorico, e come tale costitutivo dei costrutti della psicoanalisi? Quando si risponde che questo è l’unico modo per far emergere emozioni, vissuti, sensazioni che non avrebbero potuto altrimenti venire alla luce, che non sarebbero quindi mai stati né percepiti, né pensati, né (seppure con parole inadeguate) comunicati, o anche solo che è un modo per accelerare e intensificare processi abreativi dinamici ed elaborativi, allora ancora una volta si è già trasformato radicalmente l’impianto psicoanalitico. Siamo già in tutt’altra sfera teorica, tutt’altre ipotesi, che si avviano esattamente lungo lo stesso percorso che la psicoterapia corporea aveva intrapreso 70 anni fa.
Per spiegare come il corporeo possa far emergere direttamente antichi vissuti, bisogna cominciare a ipotizzare che i processi elaborativi non controllino affatto tutto il nostro funzionamento, che non si instaurino al di sopra di un biologico e un protomentale originari e privi di coscienza. Bisogna ammettere che può esistere un’autonomia dei processi corporei quando questi si sconnettono da uno stato di integrazione originaria, e soprattutto che essi non solo sono influenzati ma influenzano anche, pariteticamente, il nostro pensiero, gli schemi e le rappresentazioni mentali. Scopriamo allora che il simbolico non sempre riesce a trasformare il corporeo e non perché quest’ultimo appartenga al mondo del pre-simbolico. D’altra parte se per ipotesi assurda così fosse, non servirebbe a nulla, come abbiamo già detto, farlo riemergere, proprio perché in quanto presimbolico non sarebbe utilizzabile nel processo psicoanalitico. Dunque dobbiamo pensare a un corpo che invece permette di aprire processi di simbolizzazione che altrimenti non si sarebbero aperti. Dobbiamo pensare ad una sorta di “memoria corporea”, all’esistenza di una stratificazione delle emozioni nei vari distretti corporei, ad un’autonomia dei processi corporei in alcune specifiche condizioni. D’altra parte, se muovendo il corpo si arriva a far affiorare anche (non solo) vissuti preverbali, ciò vuol dire che il pensiero primario non è così separato e distante dal pensiero secondario, che i processi psicocorporei hanno un’evoluzione ma non subiscono un salto di discontinuità così brusco e totale. Numerose ipotesi sulla vita psichica infantile vanno sempre più in questa direzione: dagli “involucri di esperienza” di Stern agli schemi di attaccamento di Bowlby, dallo “psicosoma” di Winnicott alle “identificazioni di risonanza” tutt’affatto corporee di Weiss e di Sandler.
Giunti a questo punto del nostro ragionamento bisognerebbe cercare di capire perché, poi, in psicoterapia corporea emergano sensazioni e percezioni inusuali: quali tremiti, formicolii, correnti e così via. Perché certe zone diventano calde o fredde, vengono percepite pesanti o leggere, grandi e gonfie o piccole. Questi cambiamenti psicofisici vengono spiegati in psicoterapia corporea come un emergere di esperienze estremamente intense ma sepolte, un emergere di un materiale corporeo “inconscio”, di vissuti, emozioni, ricordi e sensazioni fisiche perdute: uditive, tattili, visive, olfattive che siano. Per lavorare direttamente con il corpo in terapia allora è indispensabile conoscere il modo in cui sono interconnessi gli apparati fisiologici con le posture e con il muscolare; a che cosa conducono le vie neuroniche cortico-muscolari e cortico-viscerali, sia in senso discendente che ascendente; come agisce su tutto il resto dell’organismo il sistema neurovegetativo; come influisce la respirazione (e più precisamente i vari tipi di respirazione); che cosa un tono muscolare alterato induce sul piano delle emozioni, del simbolico, dei ricordi, dell’elaborazione. E’ indispensabile sapere, ancora, che cosa un contatto fisico può produrre nel paziente, e in che modo, e che conseguenze hanno le differenti maniere di toccare, muovere, far muovere, respirare. E tutto questo alfine di non procedere alla cieca e di non correre il rischio di rendere, di conseguenza, la terapia iatrogena. In altri termini, se le esperienze arcaiche sepolte nei vari piani del Sé hanno un’influenza significativa sulle condizioni attuali, e se di conseguenza in esse erano possibili sia gratificazioni che frustrazioni, allora diventa assolutamente indispensabile che le regressioni a quelle esperienze siano connotate in senso positivo. E’ indispensabile cioè che, in terapia, queste arcaiche esperienze siano ripercorse, e ripercorse su tutti i piani del Sé. E’ indispensabile che siano rese finalmente gratificanti e nutrienti, trasformandone gli esiti antichi e le antiche tracce laddove siano connotate negativamente, per evitare che si ripetano le stesse vicende drammatiche che i pazienti hanno già vissuto nel loro sviluppo evolutivo: indifferenza, incomprensione, distacco, ostilità, sfiducia, freddezza nei loro confronti. Ora un tale articolato complesso di ipotesi, incentrato su una fondamentale circolarità delle connessioni psiche-corpo non può essere inglobato, come risalta nella sua stessa evidenza, né dalla psicoanalisi e dal suo quadro teorico ed epistemologico né da altri approcci clinici più tradizionali. Né d’altronde si può giustificare l’introduzione del lavoro diretto sul corporeo in questi altri modelli di psicoterapia semplicemente con l’assunto che “se tocco solo un poco allora non devo necessariamente modificare l’ottica e il quadro teorico di partenza”; infatti solo un poco può essere a volte ancora più sconvolgente del molto, e perciò, se privo di criteri di riferimento, di gran lunga più pericoloso. Tutta questa problematica è già stata affrontata nel lungo percorso che la psicoterapia corporea ha compiuto sino ad oggi. Sarebbe assurdo far finta che questa competenza non esistesse e ricominciare daccapo; così come assurdo sarebbe fingere che la psicoanalisi non è mai esistita e rifarne il percorso, a partire dall’ipnosi, per scoprire l’esistenza dell’inconscio e dei fenomeni di transfert. Nessuno, del resto, oggi si sognerebbe di “scoprire”, considerandoli una propria originale conquista, le leggi del comportamentismo, i processi cognitivisti, le relazioni sistemiche della famiglia, le matrici gruppali. E il discorso che abbiamo svolto per la psicoanalisi può essere dunque ritenuto egualmente valido anche per queste altre aree teoriche. Pier Francesco Galli è uno di coloro che fra i primi hanno lucidamente e pubblicamente sostenuto questo punto di vista, riconoscendo la competenza specifica acquisita dalla psicoterapia corporea; oggi questo punto di vista si è ampiamente diffuso, sia a livello nazionale che internazionale.
Ci auguriamo che sempre di più, nello sforzo comune di mettere a profitto tutti i contributi significativi dei più importanti modelli terapeutici, e nonostante la presenza non sistematica della psicoterapia corporea nell’università e in altri centri istituzionali, si riesca a superare una volta per tutte una vecchia pregiudiziale, una diffusa “difficoltà” a volerla vedere e riconoscerne il valore; e soprattutto si riesca ad allontanare definitivamente la “tentazione” di utilizzarne nascostamente le elaborazioni tecniche senza rispettarne il complesso e vasto quadro di riferimento teorico, così come esso si è andato sviluppando ed elaborando nei suoi oltre 70 anni di vita.